Lo storico Andrea Riccardi interpreta un evento del passato come illuminante della vicenda attuale del cattolicesimo. Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento che Andrea Riccardi pronuncerà oggi al convegno internazionale “San Paolo fuori le Mura – Incendio e ricostruzione” che si svolge presso la stessa basilica a Roma.
La Chiesa cattolica viveva la sfida di ricostruire della società cristiana, una restaurazione “impossibile” dopo la Rivoluzione Francese e le riforme napoleoniche. Per spiriti critici e appassionati, come Felicité de Lamennais, personalità rifondatrice del cattolicesimo ottocentesco, la restaurazione era fallimentare: chiedeva invece alla Chiesa di cambiare rotta, giocandosi come movimento legato al papato, nel quadro delle libertà moderne. Nel clima di crisi della restaurazione, proprio a Roma, cui tanti cattolici d’oltralpe guardavano con attenzione e devozione, s’incendiò la basilica di San Paolo. Roma era città in gravi difficoltà come lo Stato Pontificio. Leone XII, nell’enciclica Ad plurimas per la ricostruzione della basilica, ammette la crisi.
Scrive giustamente Richard Wittman nel libro dedicato a San Paolo fuori le mura, Ricostruire la Chiesa: “L’incendio della basilica di San Paolo non poteva che essere percepito come una potente metafora: un segno dell’ira divina o un presagio di imminenti, ancora più gravi catastrofi. Tutto questo portò a vedere la ricostruzione come una necessità pressante.” Molto è stato detto su come i contemporanei, a Roma e nel mondo, videro l’incendio. Mio compito è una riflessione sul fuoco della distruzione e sulla fatica della ricostruzione in una chiave contemporanea. È un compito che incrocia la mia sensibilità, perché nel 2021 ho scritto con passione un libro dal titolo La Chiesa brucia, crisi e futuro del cristianesimo, partendo dalla metafora dell’incendio di Notre Dame, tra il 14 e il 15 aprile 2019, quasi due secoli la distruzione di San Paolo.
L’ incendio della chiesa madre di Parigi ha suscitato l’emozione di tanti cristiani e non cristiani, mostrando la fragilità di un edificio che da secoli presidiava con saldezza il cuore della capitale. L’evento ha assunto un aspetto simbolico della fine della Madre, la Chiesa, alle radici di tanta storia d’Europa. Bruscamente, come incendio che divampa la notte, ha materializzato la sorte del cattolicesimo in Europa, il suo declino costante. Nella storia del XXI secolo la Chiesa in realtà non brucia spesso con il fuoco, anche se gli incendi -come quello di Notre Dame- ci fanno improvvisamente pensare alla sua fine, anzi scoprirla in atto nelle nostre città e campagne.
Il martirio cristiano del XX secolo si connette anche alla distruzione delle chiese. In Urss, dove si è svolta la più grande e lunga persecuzione anticristiana del Novecento, con un numero di martiri di circa un milione e mezzo, è avvenuto un cambiamento, se non una devastazione, del panorama di città e campagne, con la distruzione di migliaia di chiese che con la loro caratteristica architettura segnavano l’orizzonte. Le poche chiese rimaste sono particolari opere architettoniche o destinate ad altri usi. Così, nella Russia postsovietica, la Chiesa ortodossa si sia impegnata in una ricostruzione sistematica delle chiese, replicandone lo stile del passato, a partire dalla imponente cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, la più grande chiesa ortodossa del mondo, fatta saltare da Stalin nel 1931. La sua ricostruzione nel 2000, sostenuta anche dallo Stato, esalta la sinfonia tra Chiesa e Stato. Nella Federazione russa, la ricostruzione delle chiese manifesta un progetto di restaurazione ortodossa, quella della Santa Russia.
La guerra civile spagnola, per lo scatenarsi tragico di una persecuzione antireligiosa di massa, ha colpito anche molti edifici di culto con distruzioni, incendi, profanazioni. È stata così intensa che una raccolta di fotografie di chiese distrutte nella sola arcidiocesi di Barcellona, dal 1936 al 1939, porta il titolo di El martiri des temples, come se anche le chiese fossero martiri in tempo di martirio. Le distruzioni volevano imprimere un altro volto alla società spagnola, facendo sparire anche le persone di molti cattolici, vescovi, preti, religiosi. A Barcellona, l’arcivescovo scomparve misteriosamente. Dalla fine della guerra civile, le chiese furono sistematicamente restaurate o ricostruite con l’aiuto del regime cattolico e autoritario di Franco. Anche nel caso spagnolo, la ricostruzione delle chiese si accompagnava alla restaurazione del regime cattolico del falangismo, dopo la Repubblica.
Nel Novecento, con l’impegno pastorale rinnovato, si è espressa una passione per costruire nuove chiese. Il che è anche un grande problema finanziario. Fino a ieri, la grande sfida nelle città europee era costruire nuove chiese per accompagnare lo sviluppo urbanistico delle periferie. L’impegno non si è fermato dopo il Vaticano II, anzi ha trovato nuovo incremento, nonostante fosse sottoposto a forte critica da parte del mondo della “contestazione cattolica”. In questi ambienti si notava come, con parte della gente in abitazioni improprie, non si sarebbero dovute impegnare tante risorse per le chiese. L’abate Franzoni, come ordinario di San Paolo, nella lettera pastorale La terra è di Dio del 1973, si associava alla critica. Sulle chiese spuntavano scritte critiche di questo tipo: “-chiese e +case”.
Il fuoco è degli edifici per la Chiesa e la società? Il fuoco scrive Luigi Epicoco «ha tre grandi caratteristiche: bruciare, illuminare, riscaldare. Se le seconde due esperienze sono costruttive -aggiunge- vedremo più avanti che anche la prima caratteristica, nella sua devastazione, ha uno scopo essenziale ». Tre caratteristiche positive in fondo. La solitudine è compagna dell’occidentale con il suo clima freddo. La crisi della Chiesa non è fuoco, ma freddo. Freddo che gela le nostre chiese. La freddezza riduce la pratica domenicale, specie dei giovani. E’ il calo delle vocazioni, con conseguenze pesanti, come la riduzione delle liturgie. In Europa si chiudono le chiese, le si abbandonano o le si vendono. Il freddo, non il fuoco, serra le porte: è il disinteresse dei fedeli che non le abitano più con preghiera e passione.
La realtà di tante chiese chiude dal freddo e la crisi della Chiesa non possono essere affrontate nella prospettiva della gestione, ma vanno vissute come una grande crisi, di cui tutti i cristiani devono essere drammaticamente consapevoli. “Gestione” esprime la cultura con cui molti, specie i leader ecclesiali, affrontano la congiuntura: si accetta la cultura del declino. Quale alternativa? Il declino è il futuro. Visione, responsabile e un po’ fredda, che guida alla riorganizzazione delle forze. Sforzi enormi sono fatti per presidiare il territorio e rendere possibile l’accesso alle liturgie. La cultura del declino è realistica, responsabile, ma convinta tristemente che il cristianesimo sarà sempre più minoranza. Aggiungo che c’è anche la risposta tradizionalista: una minoranza pura e dura, che viva luoghi di culto preconciliari: scelta di non molti, ma attrattiva su segmenti di giovani preti.
La cultura del declino -nota un testo che deve molto a Giuseppe De Rita, Gregge smarrito- genera l’irrilevanza nella società («Una Chiesa che agisce senza parlare e parla senza contare»), l’uscita della cultura cattolica dal dibattito pubblico, l’evaporazione della dimensione culturale. La Chiesa che brucia è una crisi drammatica che tutti i cristiani devono assumere. E non solo i cristiani. Per comprenderla, bisogna avere il coraggio di estremizzare. Aveva ragione Jean Delumeau, grande storico, che si chiedeva nel 1977: Il cristianesimo sta per morire? La domanda va posta a fondo per cogliere la profondità della crisi, annunciata dalle pietre, ma reale nella società. La Chiesa brucia? Il cristianesimo sta per finire? C’è un legame tra il futuro della fede e della Chiesa con il futuro delle chiese, anche se il primo è tanto più grande dell’ultimo. Per più di mezzo secolo, la Chiesa ha parlato di evangelizzazione, ma i praticanti sono diminuiti costantemente: è rozzo dirlo così, ma è vero. I l senso di crisi non porta al pessimismo, anzi può generare speranza e passione. I non praticanti sono aumentati, ma non c’è più l’ostilità gretta e ideologica di ieri verso la Chiesa, mentre esiste un mondo molto attento ad essa. Non essere praticanti non vuol dire non essere legati al cristianesimo -spiega Valérie Le Chevalier, che parla di «credenti non praticanti ». Gli emigrati portano storie di fede intense. Lo si vede con i latino-americani e gli africani, che in Gran Bretagna ripopolano le chiese. Non c’è così freddo attorno alla Chiesa come si dice, anche se c’è freddo attorno alle chiese.
Ma il vero problema è il “cambiamento climatico culturale” del nostro mondo, come diceva acutamente il rabbino Sacks: il passaggio dal noi al mondo dei tanti io soli, che non fanno comunità e famiglia. La società è tanto cambiata. L’io può amare la spiritualità, ma poco una via ecclesiale in cui ci si salva insieme, “nella stessa barca” -dice Francesco. Il papa, nell’Evangelii gaudium, all’inizio del pontificato aveva indicato una via. Documento poco recepito da buona parte della Chiesa, perché chiedeva di abbandonare la cultura del declino e della riorganizzazione, a suo modo rassicurante, per credere che il Vangelo sia il futuro e che ancora non ne abbiamo vissuto le sue potenzialità appieno. Il Vangelo, che è il futuro, riunisce una piccola/ grande comunità, un noi. Il noi è il calore e passione, mentre la solitudine dell’io è freddo. Il noi è la comunità. Papa Francesco ci chiede di abbandonare la cultura del declino e della riorganizzazione, per credere che il Vangelo è il futuro e che ancora non ne abbiamo vissuto le sue potenzialità appieno Il martirio cristiano del XX secolo si connette anche alla distruzione dei luoghi di culto. In Urss, dove si è svolta la più grande persecuzione del Novecento, è avvenuta una devastazione dell’intero panorama, con la distruzione di migliaia di edifici sacri.