Fonte: Corriere della Sera
«Chi parla ancora oggi della strage degli armeni?» – avrebbe detto Hitler nel 1939 ai suoi comandanti militari alla vigilia dell’invasione della Polonia. Parlare della strage degli armeni vuol dire ricordare una pagina nera del Novecento, ma pure chiedersi come si può vivere insieme tra popoli tanto diversi. Il massacro degli armeni si colloca nella lunga agonia dell’impero ottomano tra XIX e XX secolo. È una storia di continue amputazioni territoriali con nascita di Stati indipendenti (non musulmani), dalla rivolta greca del 1821 fino all’Albania libera nel 1912. A questo declino, reagisce il movimento nazionalista dei Giovani Turchi al potere dal 1908. Questi percepiscono come l’Anatolia stessa, cuore turco dell’impero, sia minacciata. Qui circa il 20 per cento della popolazione è cristiano, in particolare armeni e greci.
I Giovani Turchi temono la saldatura tra il nazionalismo armeno e la Russia, alle frontiere dell’impero. L’occasione per la pulizia etnica viene con l’ingresso della Turchia nella Prima guerra mondiale a fianco della Germania e dell’Austria-Ungheria. Gli armeni vengono deportati verso il deserto siriano e in larga parte massacrati. Ne muoiono circa 1.500.000 (secondo i turchi invece da 200.000 a 800.000 persone). È il primo genocidio del Novecento, anche se il termine è proposto più tardi, nel 1944, dal giurista polacco di origine ebraica, Raphael Lemkin. Ma non bastano le cifre a dare la profondità del dramma. La memoria si nutre del contatto vivo con i testimoni della fine drammatica di un tessuto secolare di convivenza. Recentemente le Edizioni Guerini e Associati hanno pubblicato il Diario di Henry Morgenthau, ambasciatore statunitense a Costantinopoli dal 1913 al 1916, tradotto per la prima volta in italiano. È «un documento di importanza mondiale» – si legge nell’introduzione – proprio perché segue la dinamica del genocidio dalla capitale ottomana.
Il libro mette a contatto con la vicenda di un diplomatico che difende i cristiani, scontrandosi con la determinata politica dei Giovani Turchi, guidati dall’onnipotente triumvirato, Talaat, Enver e Cemal. Morgenthau è un avvocato ebreo di origine tedesca, vicino al presidente Wilson, che lo nomina a Costantinopoli dopo la vittoria elettorale. Vive sul Bosforo il tramonto dell’impero, quando i Giovani Turchi provano a rivitalizzarlo con metodo autoritario e violento. Sono nazionalisti estremi, imbevuti delle dottrine panturaniche, che assegnano un ruolo decisivo alla «razza turca», anche se professano un islam di facciata in un Paese religioso, in cui il sultano è califfo dell’islam. Morgenthau non si chiude nella vita dorata dei diplomatici e nelle loro belle case a Costantinopoli o sulle Isole: «In Turchia – nota – gli ambasciatori sono riveriti…». Riceve informazioni dai consoli nelle remote province ottomane. Gli occidentali, sparsi sul territorio, sono testimoni del dramma: «Seduti per ore nel mio ufficio – scrive il diplomatico – mi raccontarono con le lacrime agli occhi gli orrori attraverso cui erano passati». Il pastore protestante tedesco Johannes Lepsius pubblica in Germania, nel 1916, un rapporto sul massacro. Nello stesso anno, un domenicano francese, padre Rhétoré, confinato a Mardin, una cittadina ora ai confini con la Siria, scrive una cronaca dei massacri. Marco Impagliazzo l’ha pubblicata, per le Edizioni Guerini, con il significativo titolo Una finestra sul massacro: è quasi un film sulle stragi. Notizie tragiche arrivavano agli ambasciatori a Costantinopoli. Che fare?
Morgenthau non ha dubbi e, forte solo del prestigio del suo Paese, lavora per salvare vite umane. Gli interlocutori turchi non lo capiscono. Talaat gli chiede come mai lui, ebreo, si impegni per i cristiani. Si vedono le categorie etnico-nazionaliste del leader turco che, senza tentennamenti, presiede alla sistematica eliminazione degli armeni, per lui tutti traditori. All’obiezione di Morgenthau se il tradimento di alcuni sia «motivo sufficiente per sterminare l’intera razza… per far soffrire donne e bambini», Talaat risponde: «Gli innocenti di oggi possono essere i colpevoli di domani». Tutto il popolo dev’essere distrutto, perché la sua presenza è un elemento di pericoloso pluralismo. Quando la responsabilità scivola dal livello individuale al gruppo, il processo si fa pericoloso. La strage si giustifica come un’autodifesa preventiva. Rileggere le parole dei nazionalisti turchi ci rende ancora oggi avvertiti contro le generalizzazioni che, pur apparendo ovvie, sono invece una mostruosità. La colpa sarebbe di una razza, di un popolo, non dei singoli. Ammonisce Elie Wiesel che anche «i figli degli assassini non sono assassini, sono bambini».
La storia dei tre anni di Morgenthau a Costantinopoli è quella di un giusto che lotta a mani nude nel mondo inquinato della guerra e dell’odio nazionalista. Il clima felpato della capitale cova un crimine mostruoso. Nel 1916, lascia la città, in cui gli è diventata «insopportabile la frequentazione quotidiana con uomini che, a dispetto della cortesia… avevano le mani sporche del sangue di poco meno di un milione di esseri umani». Eppure li incontra tante volte, ne coglie gli aspetti umani, strappa concessioni per salvare vite. Nel Diario traccia i ritratti dei «padroni» della Turchia. Enver Pascià, sposato a una principessa imperiale, lo riceve nel suo lussuoso palazzo. La sua tesi è che tutti soffrono nella Turchia in guerra: «Come facciamo a dare del pane agli armeni… se non riusciamo a darlo neppure alla nostra gente?». È una tesi sviluppata poi dalla storiografia prevalente in Turchia, che nega il genocidio: tutti i popoli dell’impero hanno sofferto massacri, stenti e maltrattamenti durante la guerra. La rigidità negazionista ha impedito che si sviluppasse una storiografia anche sulla resistenza dei turchi alle deportazioni. Alcuni di questi nascosero gli armeni per amicizia personale, per motivi religiosi, per fedeltà a una visione multinazionale ottomana. Invece tanta parte del dibattito storiografico si è polarizzato sulla negazione/affermazione del genocidio. C’è ancora una storia appassionante e drammatica da scrivere. Molti cristiani si sono dispersi nel Paese, specie bambini e donne, durante il genocidio. Una parte degli armeni è diventata musulmana, forse il 10 per cento. La conversione è stata imposta o ha rappresentato una via di fuga. Ci sono tante storie nascoste di sopravvivenza. Donne armene hanno vissuto per decenni in famiglie musulmane. Si calcola che 300.000 bambini siano stati presi dai musulmani o affidati a loro. Il patriarca armeno di Istanbul, Snork Kalutsyan, nato nel 1913 e morto nel 1990, sembra avesse una sorella musulmana. Sono storie emblematiche dell’intreccio doloroso e complesso di quegli anni, di cui sono emersi solo pochi spezzoni. Il genocidio è la storia del dramma armeno, ma anche una vicenda rivelatrice dei tanti volti della Turchia: è una storia comune.
Gran parte degli armeni (specie uomini) furono uccisi. Talaat, l’uomo forte del triumvirato, confida a Morgenthau: «Ci siamo liberati di tre quarti degli armeni… L’odio tra armeni e turchi è così grande che dobbiamo farla finita con loro, altrimenti si vendicheranno su di noi». Gli dice: «Trattiamo bene gli ebrei. Di che cosa vi lamentate? Perché non ci lasciate trattare i cristiani come piace a noi?». Gli chiede l’elenco dei titolari armeni delle polizze vita con compagnie americane: sono morti e il governo vuole riscuoterle. L’appropriazione dei beni armeni costituisce un capitolo importante del genocidio (verso cui crea consenso).
L’accusa agli armeni è la collaborazione con i nemici della Turchia. Ma non tutti gli armeni sono nazionalisti. Il vescovo armeno cattolico di Mardin, Maloyan, – si legge nel libro di Impagliazzo -, prima di essere assassinato, rivendica ingenuamente, come protezione, il fatto che è decorato dalla Sublime Porta. A Costantinopoli Morgenthau combatte la sua battaglia. Un grande avversario è l’ambasciatore tedesco, Wangenheim, proconsole del kaiser sulle rive del Bosforo, totalmente sordo alle esigenze di umanità. Il suo disegno è utilizzare il prestigio islamico della Sublime Porta contro le nazioni «cristiane», come Francia, Russia e Gran Bretagna. La dichiarazione di guerra del sultano è anche la proclamazione del jihad, la guerra santa, agli infedeli. In realtà la lotta agli armeni è espressione dell’odio razziale dei Giovani Turchi, imbevuti di nazionalismo laico. Si trasforma però in una caccia al cristiano. Infatti, i turchi anatolici e i curdi non collaborerebbero alle stragi e alle deportazioni degli armeni solo per i motivi nazionalisti. Si deve far leva sull’odio al cristiano. Così la strage degli armeni si allarga – fatto poco noto – agli altri cristiani: sono uccisi decine, forse, alcune centinaia di migliaia di cristiani, caldei, siriaci, assiri. Scompare un millenario mondo cristiano di inermiminoranze, mai sfiorato dal nazionalismo. Un vero olocausto. All’interno del Paese – scrive un console americano – c’è «un regime di terrore allo stato puro». Lo fotografa con drammatiche istantanee (sfuggite alla censura) il militare tedesco Armin Wegner, come si vede in un libro anch’esso pubblicato da Guerini.
Ci sono «carovane di disperati» (specie donne e bambini) che attraversano il Paese: «Un convoglio di normali esseri umani si trasformava in un’orda claudicante di scheletri coperti di polvere», scrive Morgenthau. Le crudeltà sono giustificate dal fatto che ormai le diverse comunità «non possono convivere nello stesso Paese», dichiara l’ambasciatore tedesco. Eppure un elemento significativo della storia ottomana, nonostante le tante difficoltà, era stata proprio la coabitazione della maggioranza musulmana con le comunità cristiane e gli ebrei in un quadro multietnico e multireligioso. È diventato impossibile nell’età dei nazionalismi: etnia, religione, nazione e Stato finiscono per coincidere, quindi non c’è più posto per chi non è omogeneo. Bisogna far pulizia. I metodi usati, nota Morgenthau, «sono indicativi di una nuova mentalità». Non è più la violenza che tradizionalmente ha accompagnato la storia turca, ma una vera organizzazione del terrore e della pulizia etnica.
Le pagine appassionati di Morgenthau sono una testimonianza decisiva sulla meccanica del primo genocidio del Novecento. L’ebreo americano sul Bosforo si incontra con un mondo dalle identità secolari, investito dalla febbre nazionalista che legittima ogni assassinio. Registra come i suoi interlocutori non capiscano come «al di sopra di considerazioni di razza e civiltà vi siano concetti quali la giustizia e la civiltà». Nel crogiuolo della Prima guerra mondiale, tra tanti orrori, matura però quel sentire umanitario, di cui l’ambasciatore Morgenthau è un esponente di spicco. Il suo Diario è anche un bel testo letterario, in cui si vede la forza dell’umanesimo contro una brutalità cieca al patire degli uomini e delle donne.
La vicenda degli armeni non è solo una grande questione storica. Resta qualcosa che oggi divide turchi e armeni. In Turchia vive ancora una piccola comunità armena di circa 80.000 persone, soprattutto a Istanbul. Arrivano immigrati dall’Armenia indipendente. In argot talvolta l’armeno viene chiamato «colui che è sopravvissuto alla spada» (con riferimento alle stragi). Oggi si ripropone, seppure in proporzioni diverse, l’antica questione della convivenza. Del resto convivere tra diversi è un problema in tutto il mondo. Pochi anni fa il giornalista armeno, Hrant Dink, parlò con chiarezza del genocidio armeno in una Turchia per cui è ancora un tabù. Fu condannato. Per Dink, i pochi armeni rimasti sono decisivi per il futuro del Paese: «Così la società turca riscopre quello che implica vivere con l’Altro, con le sue differenze». Armeni e turchi si debbono incontrare: «È una civiltà che popoli che convivono devono produrre insieme», conclude il giornalista armeno. Ma, nel 2007, Dink fu assassinato da un fanatico. La violenza e le stragi non tacitano però la grande questione di cui la storia degli armeni è tragica metafora: se si può vivere insieme tra diversi. Hitler aveva torto. Ancora oggi si parla di armeni. Lo impone la loro vicenda drammatica. La loro storia, in qualche modo, rappresenta una grande questione dei nostri tempi: vivere insieme in un mondo sempre meno omogeneo etnicamente e religiosamente. Ricordarsi degli armeni fa capire meglio la nostra storia e forse aiuta a cambiarla.