Fonte: Corriere della Sera
L’Indonesia è un grande laboratorio di convivenza tra islam e democrazia. Diverse sono le tradizioni, ma in entrambe pulsa un islam segnato dalla cultura giavanese, dai sufi e da una tradizione di tolleranza. Ora, alla vigilia delle elezioni amministrative e verso le presidenziali del 2019, s’intensifica la strategia della tensione nel Paese. Il prezzo, purtroppo, è pagato da gente semplice, disarmata, raccolta in preghiera. All’indomani dei tragici fatti di sangue che hanno sconvolto il Paese, Andrea Riccardi fornisce la sua lettura
Tredici cristiani uccisi a Surabaya in Indonesia in tre attentati, divisi con «ecumenica» e crudele precisione: nelle chiese cattolica, pentecostale e evangelica. Di nuovo i cristiani muoiono di domenica. In Indonesia, vengono colpiti per destabilizzare il più popoloso paese musulmano del mondo, considerato dai terroristi «empio» per lo spazio dato agli «infedeli». L’Indonesia non è – né vuole essere – uno Stato islamico, nonostante l’86% dei cittadini sia musulmano e si manifestino spinte per l’islamizzazione (e ci sia un partito islamista minoritario). E’ una storia ben diversa dal Pakistan che, dopo l’indipendenza, ha vissuto una crescente islamizzazione. L’Indonesia è invece un grande laboratorio di convivenza tra islam e democrazia, nonostante le tensioni e le spinte centrifughe in un Paese di circa 17.000 isole, di tante etnie e lingue differenti, dove c’è una grande crescita economica, ma 80 milioni di cittadini mancano di elettricità. Dall’indipendenza, lo Stato ha condotto una politica inclusiva di etnie e religioni diverse. «Molti, ma uno» è il motto del Paese, che campeggia innanzi al parlamento di Jakarta. Islam, protestantesimo, cattolicesimo, confucianesimo, buddismo e induismo sono religioni riconosciute. Mai è stata rivista questa impostazione, anche in tempi di islamizzazione globale. L’Indonesia è un modello in controtendenza nel mondo musulmano, inaccettabile per i radicali, i fondamentalisti infiltrati dal Sud delle Filippine, i foreign fighters rimpatriati. Ho conosciuto Abdurrahman Wahid, primo presidente democratico, eletto nel 1998. Era un personaggio vibrante, carismatico, cieco, ma capace di mobilitare le folle. La sua convinzione era che l’Indonesia rappresentasse un’altra via rispetto all`islamizzazione. Si chiedeva : «Perché essere a rimorchio del mondo arabo, del suo autoritarismo e delle sue crisi?». Incarnava la particolarità dell’islam indonesiano. Era leader della Nahdlatul Ulama, grande confraternita musulmana, fondata nel 1926 proprio a Surabaya (la città degli attentati).