Fonte: Corriere della Sera - SETTE
Il Libano ha finalmente un presidente. Per quarantasei volte il Parlamento non aveva trovato l’accordo su un nome. Sono passati 890 giorni senza capo dello Stato, in una regione in fiamme, con un milione e mezzo di rifugiati su quattro milioni e mezzo di abitanti (senza contare i quasi 450.000 profughi palestinesi). Il presidente è il generale Michel Aoun, cristiano maronita secondo l’accordo intercomunitario: un revenant da una storia complessa che l’ha visto – alla fine degli anni Novanta e della guerra civile – gestire un interim presidenziale con il disegno di liberare il Paese dai siriani che, poi, lo scacceranno.
Dopo un lungo esilio, è tornato in patria con una posizione capovolta: amico della Siria e degli hezbollah, nemico dei sunniti di Hariri. Questi, però, ha stretto ora un accordo per portarlo alla presidenza, e ora Hariri è stato scelto come primo ministro. Il Libano, prima della metà degli anni Settanta, era un laboratorio unico di convivenza islamo-cristiana. Giovanni Paolo II disse: «Il Libano non è un Paese, ma è un messaggio». Cristiani e musulmani dialogavano, mentre l’asse tra maroniti e sunniti reggeva lo Stato, chiamato “la Svizzera del Medio Oriente”, un paradiso fiscale, con un gran ruolo finanziario. A Beirut si viveva la bella vita nei grandi alberghi e sulla Comiche lungo il mare. Ma anche il Libano era l’unico Paese arabo, dove non si esercitava la censura sulla stampa e si poteva discutere con libertà. Era il Libano delle tante comunità cristiane (maronita, melkita, amena e altre) e musulmane (sunnita, sciita, drusa). Restavano un po’ di ebrei. Pierre Gemayel, capostipite di una dinastia politica e fondatore della Falange, milizia nella guerra civile e partito, disse a Tullia Zevi che lo intervistava: «Gli ebrei se ne stanno andando dal Libano: è segno che capiterà qualcosa di grave».