Fonte: Avvenire
Roma è triste e svuotata. Come non esserlo di fronte ai primi risultati dell’inchiesta condotta con lucidità e senza protagonismi dal coraggioso procuratore Giuseppe Pignatone e dai suoi collaboratori? Non si tratta ora di discettare dell’ampiezza dello spettro mafioso. La magistratura indagherà e giudicherà. Si deve però manifestare un senso di vergogna di fronte ai romani, soprattutto ai deboli: «Speriamo che il 2013 sia pieno di monnezza, profughi, sfollati e bufere» – diceva un sms augurale di un attore di questa vicenda. Un altro affermava: «Si fanno più soldi con gli immigrati che con il traffico di droga». Credo che, innanzi tutto, c’è da scusarsi con la tanta gente delle periferie romane, gli immigrati e i rifugiati, i rom. E non si è ancora visto maturare quest’atteggiamento nel fuoco incrociato delle accuse e delle discolpe.
La gente delle periferie è stata imbrogliata. Sono stato a Tor Sapienza. Il quartiere è al limite della vivibilità: poca luce, scarse connessioni, traffico di droga e tante fragilità sociali. Volevano far credere che il problema fosse un pugno di rifugiati. Ora scopriamo che il caso è stato montato ad arte. Il problema è invece enorme: un quartiere abbandonato. Si è tentata una strategia della tensione tramite una facinorosa manovalanza anche per aizzare gli abitanti contro i rifugiati. Un caso di manipolazione della disperazione. Possibile che nessuno se ne sia accorto in tempo?
Bisogna, prima di tutto, chiedere scusa per il degrado delle periferie, su cui non si è investito. Non ci si lamenti poi dell’antipolitica o del ribellismo. I romani di periferia sono soli, in un momento economico e sociale così difficile. Scusarsi con la gente di periferia è necessario non solo per le evidenti responsabilità penali, ma anche per aver abbandonato una parte della città e non aver guardato a Roma dalle periferie.
Bisogna chiedere scusa agli immigrati, quando si è speculato su di loro. Il linguaggio delle intercettazioni – pur non penalmente rilevante – manifesta il degrado della cultura gestionale non solo della politica, ma anche di una fetta del sociale. Eppure il sociale, quello cattolico come quello "politico" (e soprattutto di sinistra), è stato un motore del riscatto delle periferie. Senza dimenticare i tanti lavoratori del sociale che sono fuori dalla logica delle "cupole". Ci sono però anche immiserimenti umani e culturali che hanno strangolato esperienze partite bene. Sono stati troppo trascurati il valore delle motivazioni e la dimensione del gratuito.
C’è un fenomeno non secondario su cui riflettere: come parliamo dei deboli? Come parliamo di Roma? Le parole non sono casuali. Il linguaggio delle intercettazioni (ma anche della gestione) rivela che le fonti si sono quasi essiccate.
C'è stata la trasformazione della sinistra. Il mondo cattolico deve registrare l’invito del Papa a uscire dai suoi circuiti. Sono passati quarant’anni dal grande convegno del febbraio ’74 sui mali e i dolori della città e delle periferie, da cui emerse un sogno su una città-comunità. Lo si è appena evocato, come un ricordo.
Bisogna chiedere scusa ai rom. Loro sono stati additati come colpevoli del degrado urbano. Ma il degrado era altro. Ricordo gli sgomberi dei campi rom, fatti con grandi dispiegamenti di forze (adatti a ben altri personaggi) e con una logica spesso insensata. Non voglio santificare nessun gruppo sociale, ma non si può trattare senza coscienza la gente della periferia, né i deboli. Solo perché non c’è (quasi) nessuno che li difenda o dia loro voce.
È emerso un cinismo che fa paura e ci fa sentire più insicuri. Roma è sfiduciata e insicura. Non è solo il problema della corruzione. Ancor prima dei giudizi sulle persone (che non è lecito anticipare), emerge però l’inconsistenza di una classe politica, permeabile, incapace di capire, di resistere nelle ragnatele degli interessi. Certo solo una parte (la maggioranza dei politici non è toccata), ma c’è un’inconsistenza generale nella tenuta, nel linguaggio, nella cultura. Qui non ci sono le energie per ripartire. Roma ha perso l’anima. L’ha detto giustamente Carlo Verdone. Le idee sulla città si sono diradate fino a evaporare. Di idee, cultura, visione, pochi si sono ultimamente interessati. Ma – ricordava Theodor Mommsen – «a Roma non si sta senza avere propositi cosmopoliti». Propositi su Roma non ci sono stati da vari anni. Cosmopoliti e universali ancora meno.
La gente di periferia è divenuta davvero periferica, perché sola. Non si ritrovano i soggetti, radicati nei quartieri, che li collegavano a un’idea di città, a una passione politica, a un processo di socializzazione. Davano anima a Roma. La maggior parte sono svaniti. Altri si sono ripiegati in modo autoreferenziale. La crisi economica, con i suoi effetti devastanti, ha fatto il resto, pesando sui più deboli e determinando tagli d’investimento sulla periferia. Roma, città così preziosa per la nostra identità nazionale e per il mondo religioso, è stata poco rispettata e amata: usata e buttata via.
Come ripartire? Non si può – come si dice a Roma – "metterci una pezza sopra". Né mettere alla gogna solo alcuni, pur colpevoli penalmente. C’è un problema generale.
La gente "perbene" è tentata di chiudersi in casa o nei suoi circuiti. Molti sono arrabbiati, ma impotenti. Non chiudiamoci però nello sdegno o nella rassegnazione. Papa Francesco ha spiegato la differenza tra i peccatori (ogni uomo è peccatore) e i corrotti (creatori di un sistema di male). Nel buio di questi giorni, non si vedono tanti aspetti positivi, le molte luci di Roma. Non mancano "forze sane". Ma tutti sono isolati e gli ultimi fatti sembrano confermare in quest’atteggiamento. Chi opera positivamente spesso lo fa da solo. Bisogna convocare le forze sane a un grande dialogo, una costituente per una nuova stagione di Roma: suscitare dibattiti e resuscitare passioni. Roma deve ritrovare la sua anima con un salto di coscienza, capace di segnare una rinascita. Roma ha avuto momenti felici, è un grande valore storico e sociale: non può condannarsi a una vita grama o all’assenza di futuro.