Fonte: Famiglia Cristiana
«La maggiore sorpresa? Il fatto che per la Chiesa sta cominciando una nuova primavera». Andrea Riccardi, professore di Storia e fondatore della Comunità di Sant'Egidio, ragiona di papa Francesco e spiega che è sbagliato ritenere che la Chiesa si sta adattando a Bergoglio per superare la crisi: «Piuttosto direi che il Papa sta mettendo la Chiesa nella disposizione di adattarsi al Vangelo in un rapporto vivo con le donne e gli uomini di oggi».
Però papa Francesco marca una profonda rottura… «È vero e si tratta della rottura con due pessimismi. Il primo sulla Chiesa e l'altro sulla storia dell'uomo. Lo ha fatto attraverso l'emersione di risorse spirituali e di energie positive».
Che cosa non andava? «La Chiesa verso la fine del pontificato di Karol Wojtyla è un pò scivolata verso un atteggiamento difensivo, di fronte a società, soprattutto quelle europee, che si stavano allontanando progressivamente dalla fede e da modelli di vita cristiani. In altre parti del mondo la causa è l'attrazione delle sette e l'islam con il quale il dialogo si è fatto più difficile. Il Papa ha liberato la Chiesa 4 da questo senso, che pareva quasi ineluttabile, di decadenza rilanciando lo spirito con la sua simpatia. Non possiamo dire che tutti í problemi siano risolti. Si può dire che ora si può giudicare la Chiesa non più declinante».
Quali sono i problemi? «Quelli di sempre. Non esiste una Chiesa senza problemi e senza crisi. La storia produce crisi e la Chiesa sta nella storia».
Si può fare un'agenda dei problemi? «Sarebbe complicato perché la Chiesa vive in molti Paesi e in società differenti, ognuna con una sua peculiarità. Capisco la sua domanda e le dico che, secondo me, ridurre i problemi della Chiesa allo Ior o alla questione della pedofilia è profondamente sbagliato».
La sfida più importante qual è? «Una comunicazione più appassionata del Vangelo, e il Papa ci sta riuscendo benissimo. Questa ha fermato quello spirito decadente che, almeno noi europei, ci eravamo abituati a respirare. Con papa Francesco la Chiesa è tornata a essere un soggetto centrale, cui gli uomini guardano con simpatia. Mi sembra che adesso, dopo un anno di pontificato, si sia anche più consapevoli che oltre l'emozione dei primi mesi ci sono contenuti da approfondire e valori a cui aderire».
Quando si è dimesso Joseph Ratzinger l'aria era di tragedia per la Chiesa. «È vero, c'era uno spaesamento nel popolo di Dio e anche tra i vescovi e i sacerdoti. Non eravamo preparati all'evento. Ma ora possiamo dire che è emersa la grande figura di papa Benedetto. Non è giusto trasformare Ratzinger nell'imputato responsabile di tutte le cose che non andavano bene, compresa una certa lontananza della Chiesa dai poveri. La responsabilità è dei cristiani e delle comunità ecclesiali che, di fronte alla crisi e a una modernità che non sapevano come affrontare, hanno scelto a volte l'autoreferenzialità, il grigiore del pessimismo e una certa inerzia. E non solo in Europa o nei Paesi ricchi. In Africa le chiese sono strapiene, ma ci si dimentica di quelli che stanno fuori».
Quindi, perché Benedetto XVI si è dimesso, secondo lei? «Assolutamente non perché doveva far fronte a insuperabili problemi. Crederlo è il modo per liquidare una grande personalità della Chiesa. Semplicemente aveva capito che le forze stavano venendo meno e lo ha detto con grande umiltà pubblicamente. Io non sono d'accordo con chi ritiene che Ratzinger sia stato dimenticato. Per la gente il Papa migliore è sempre quello vivente, quello che vede e ascolta. Tutto il resto fa parte dell'analisi delle svolte profonde della Chiesa e il gesto di Benedetto XVI è una di queste. Ratzinger ha avuto il coraggio di guardare lontano».
Papa Francesco su quale via sta conducendo la Chiesa? «Sulla strada della missione. Nei media c'è forse troppo appiattimento sulle questioni istituzionali e amministrative. Non dico che non siano importanti. Bergoglio non ha chiuso le finestre per evitare che vi sia troppa curiosità mediatici sulle questioni interne. Nella lunga intervista sull'aereo di ritorno dal Brasile non si è sottratto ad alcuna domanda. Ma ha anche fatto chiaramente capire che i limiti e i problemi degli uomini che governano la Chiesa e le sue istituzioni non devono offuscare e incatenare il messaggio del Vangelo».
E qual è la via della missione? «La sfida di creare un cristianesimo di popolo che si ritrovi attorno alla liturgia e che stia vicino ai poveri, viva con loro. Non una Chiesa perfetta, ma una Chiesa fatta di donne e uomini, non supponenti né spaventati dalla storia, ma capaci di confrontarsi con i modelli economici, culturali e sociali della globalizzazione. Poi, aggiungo, la Chiesa deve fare qualcosa di più e soprattutto di più significativo per la pace».
Un Papa argentino, quindi non europeo, ha più possibilità di farcela nell'impresa di creare un "cristianesimo di popolo"? «La scelta del Conclave di un Papa non europeo è stata una grande novità. Viene da un altro mondo rispetto a quello europeo. Non teme la globalizzazione e questa è una delle cose che si è vista nel primo anno di pontificato. Il tema del confronto con la globalizzazione è decisivo, perché se non la si affronta in modo positivo e se ne ha paura, se si cerca di proteggersi da essa, allora si rafforza la conservazione e l'idea di una Chiesa intrecciata da tradizionalismo e nostalgia del passato. proprio quello che Jorge Mario Bergoglio continuamente ripete, quando mette in guardia dal diventare cristiani da museo. Invece papa Francesco, senza il timore di alcunché, schiera la Chiesa nel mondo, cogliendo, come diceva il Concilio, i segni dei tempi. Oggi è la globalizzazione dove non c'è più alcun centro, ma tutto è periferia. E dentro quella bisogna stare».