Fonte: Corriere della Sera
ROMA — Appena tornato da Sarajevo, città simbolo della guerra nei Balcani, dove le religioni mondiali si sono assunte la «responsabilità» di costruire e difendere la pace, Andrea Riccardi si è ritrovato, come tutti, di fronte alla nuova fiammata di proteste islamiche contro il film blasfemo su Maometto. C'è qualcosa che l'Italia può fare? Per il ministro della Cooperazione internazionale, fondatore della Comunità di Sant'Egidio ed esperto di dialogo e di coabitazione, c'è una cosa «importante» che l'Italia può e deve fare: «Non abbandonare l'Africa a se stessa in questo difficile momento». In particolare il Sahel, il Mali, dove si rischia un nuovo Afghanistan alle porte di casa nostra. Il rimedio? La presenza, anzi il «ritorno» del nostro Paese, che «da troppi anni è rimasto assente» da questa area delicata e «fragile» del mondo. Un modo decisivo, forse «il più significativo» per arginare l'estremismo. Non a caso proprio lunedì scorso ha firmato un accordo che permette all'Italia di tornare con la sua cooperazione in Burkina Faso, Paese considerato «strategico». E all'inizio di marzo ha deciso, dopo tanti anni, di far tornare alla ribalta la materia di cui si occupa come ministro, con il Forum nazionale della Cooperazione che si terrà a Milano il 1° e il 2 ottobre e a cui si sono già iscritte 1.200 persone: «Lì si vedrà che la solidarietà e l'interesse dell'Italia nel mondo non sono in contraddizione».
Ma è mai possibile che la «colpa» sia tutta di un film, condannato peraltro da tutte le autorità statali in Occidente? «Purtroppo abbiamo la tendenza a semplificare, a tornare allo schema musulmani contro cristiani. Ma la realtà è molto più complessa. Si va dalla corrente salafita che vorrebbe lo Stato islamico senza istituzioni democratiche ai Fratelli musulmani che operano una sintesi tra Islam e democrazia. Poi c'è la presenza di Al Qaeda, ormai spezzettata in tante diverse fazioni, ma forse proprio per questo più insidiosa: c'è una lotta per il controllo di alcuni territori del Sahel che si considerano strategici. E qui sento una responsabilità italiana: noi in quelle zone non ci siamo. Da troppi anni».
Le preoccupazioni dell'Occidente sembrano rivolte soprattutto a ciò che accade nell'area del Mediterraneo e in Medio Oriente. Per Riccardi è giusto: «Dobbiamo però renderci conto che siamo di fronte a "primavere arabe" diverse tra loro: una cosa è il Marocco, un'altra la Tunisia o l'Egitto. Non dobbiamo avere nostalgia dei vecchi regimi perché, in realtà, spesso le dittature hanno coperto ciò che covava sotto la cenere. Capisco la preoccupazione dei cristiani di fronte a possibili plebisciti islamisti in alcuni Paesi, ma non dimentichiamo che una strage come quella della chiesa copta di Alessandria d'Egitto venne organizzata sotto Mubarak».
Oltre alla «direttiva mediterranea» per Riccardi ce n'è però una seconda altrettanto importante, quella africana: «Purtroppo scontiamo un ritiro della nostra presenza dal continente, accompagnata nel corso degli anni da una riduzione significativa della cooperazione allo sviluppo, sia per il restringimento dei fondi che per una ristretta autonomia. Invece la cooperazione è un approccio originale sulla scena internazionale».
L'esempio del Mali è emblematico: «Lì si rischia un nuovo Afghanistan. Lo abbiamo visto con il rapimento di alcuni nostri connazionali: se il Nord di quel Paese, occupato militarmente dagli islamisti, si lega all'azione di Boko Haram in Nigeria e alla situazione dell'inquieto Sud algerino si crea una miscela esplosiva». Ma l'Italia, secondo il ministro, può fare molto: «Dobbiamo rinnovare la nostra presenza in alcuni Paesi cerniera, a maggioranza musulmana, ma laici: oltre al Burkina, il Niger, il Senegal e la Guinea Conakry. Possono rappresentare una cintura di stabilità e di democrazia».
Questa la sintesi geopolitica: «Credo che la nuova frontiera dell'Italia oggi sia più a Sud del Mediterraneo, si spinga nel cuore del Sahel e del Sahara, dove passano le rotte dei trafficanti di uomini e di armi. E la cooperazione vuol dire solidificazione delle istituzioni e della società civile». Oltre ad altri riflessi, non secondari: «Il rientro della cooperazione può significare anche rientro dell'imprenditoria italiana perché incoraggia l'estroversione della nostra comunità anche dal punto di vista economico».
Ma non è preoccupato Riccardi che la nuova fiammata di proteste arrivi anche in Italia? «Certo, un nuovo Afghanistan alle porte dell'Italia può essere portatore di preoccupanti elementi di destabilizzazione. Del resto anche su Internet circolano messaggi di odio etnico e razziale nei confronti dei quali sarebbe irresponsabile non prendere misure». E fa un esempio per tutti: «Mi ha colpito sapere che l'attentatore musulmano della scuola ebraica di Tolosa sia considerato un eroe da gruppi fondamentalisti in Africa: il jihadismo di quel continente è più pericoloso di quello arabo perché non circoscritto ad una sola cultura, ma rivolto a tutti».