Fonte: Il Mattino
Il grido di dolore levato da papa Francesco all’indomani del sanguinoso attentato di Lahore che ha visto morire 72 persone, delle quali 30 bambini, deve scuotere le coscienze di tutti. A pochi giorni dalle efferate stragi di Bruxelles, il cordoglio per le vittime dei talebani in Pakistan e per quelle dimenticate dello stadio di Iskanderiyah, in Iraq, dove sabato hanno perso la vita 141 persone, di cui 17 ragazzini, è sembrato infatti assai meno intenso e partecipato. In primis a Parigi, dove il sindaco si è rifiutato di illuminare la Torre Eiffel in ricordo delle vittime di Lahore. «Guai a cedere alla logica dell’inevitabilità della morte», ammonisce lo storico Andrea Riccardi. «Anche laddove l’eccidio per mano barbara irrompe con maggiore frequenza, bisogna guardarsi dal veleno dell’assuefazione», chiosa lo storico fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Che proprio oggi ha dato appuntamento stasera alle 20 ai fedeli presso la Basilica di Santa Maria in Trastevere di Roma in occasione della preghiera per la pace in Pakistan.
Presidente, l’Occidente ferito rischia di concentrarsi soltanto sui «propri morti» e di relegare in un angolo drammi più «lontani» come quelli delle minoranze cristiane in Pakistan e di civili inermi come quelli morti allo stadio in Iraq per mano di un kamikaze?
«Gli attentati di Parigi hanno suscitato un forte salto emotivo in tutto il Vecchio continente. L’idea che l’orrore possa colpire e falcidiare vite umane nel cuore dell’Europa, divenuta tragica e reale, ci ha indotto a immedesimarci di più in drammi, come pure è stato quello di Bruxelles, che sentiamo vicini, immediati e incombenti».
Il sindaco di Parigi ha spiegato di non voler illuminare la Torre Eiffel, perché si tratta di un’azione che deve essere destinata a vicende eccezionali. Laddove gli attentati sono diffusi e ormai innumerevoli, come in Pakistan, i morti non meritano ricordo?
«Non conosco nel dettaglio le motivazioni che hanno spinto Parigi a negare la commemorazione ai morti in Pakistan. Ma ciò che importa davvero rilevare è che la paura che attanaglia l’Occidente di questi tempi, non può e non deve comprimere i sentimenti di solidarietà e cordoglio verso fatti di sangue apparentemente più lontani e meno intelligibili. Dice un proverbio ebraico che quando uccidi un uomo, uccidi il mondo intero. La cultura della morte deve restare inaccettabile ad ogni latitudine. Guai a cedere alla logica dell’inevitabilità».
In assenza di pari dignità concessa ai morti, non c’è il rischio di trasformare le vittime e le celebrazioni in totem per adoratori dello scontro di civiltà?
«Ricordo che tempo fa, dopo un fatto di sangue in Africa, un giornale dedicò il titolo principale a un europeo che era rimasto ucciso. Erano stati ammazzati anche 30 africani. Ma a loro era stato dedicato solo una piccola aggiunta. Nessun lutto è abbastanza distante o indifferente da essere ignorato».
I media non rischiano di abdicare al loro compito, se rinunciano a raccontare e spiegare proprio quelle cose apparentemente più lontane ma altrettanto umane, in un mondo che si pretende globale?
«Il mondo è complesso e interconnesso, ma le cose in fondo non sono viste secondo un’ottica globale. Accade così che anche i media assecondino spesso una logica emotiva che pone in primo piano tragedie vicini e tangibili come quelle che hanno funestato l’Europa, e che i fedeli cristiani uccisi in preghiera a Lahore da fondamentalisti sempre più fuori controllo, restino più distanti dai nostri cuori. Ciò che è accaduto laggiù è però un grido che ci impone di non essere distratti. I cristiani pachistani sono un bersaglio facile perché si tratta di persone povere ed emarginate. Una minoranza dimenticata che non possiamo e non dobbiamo dimenticare anche noi nell’idea che in fondo, noi, non possiamo farci niente».