Fonte: Corriere della Sera
Serve una buona amministrazione. Ma anche una rinnovata passione civile dei cittadini perché, senza questo slancio, un’amministrazione da sola non ce la fa. L’opinione di Andrea Riccardi
Roma ha un nuovo sindaco e spero in una stagione di ripresa della città, anche se c’è tanto da fare. Roma è umiliata dalla fatica della vita quotidiana, dal tempo speso in trasporti che non funzionano, dallo spettacolo delle strade dissestate, dai rifiuti non raccolti, dalla verdura lussureggiante e non tagliata in ogni dove, dallo squallore dei suoi meravigliosi giardini e da tanto altro. I romani ci vivono, ma si sentono estraniati dal suo destino: mettono una distanza tra loro e la città. Le esperienze migliori, le eccellenze cercano rifugio in nicchie.
L’estraniazione dura da anni, confermata dall’astensionismo: è divenuta una mentalità di massa. Le grandi periferie, dove la gente è sola, sono segnate dalla bruttezza, dalla scarsità di interventi pubblici, mentre mancano reti sociali e civili che le leghino al resto della città. In periferia si è soli e marginali. Nel vuoto non si vive: qui si sono insinuate le mafie.
Roma ha avuto un centro storico, dove la vita della città si saldava con le istituzioni nazionali. In un secolo e mezzo di capitale, sono stati pensati e costruiti tanti quartieri, come un anello attorno al centro. Ma oggi questa parte della città si è svuotata di abitanti, mentre i turisti si aggirano tra il traffico e le presenze istituzionali. Ha perduto significato per il resto della città, ridotto a un meraviglioso fondale. L’idea di una città con un centro e — perché no? — un cuore è andata in frantumi. Dentro e fuori dal raccordo anulare, Roma è un immenso territorio, in cui manca uno sfondo comune (se non vogliamo dire comunitario) ai tanti insediamenti, quartieri, periferie. S’è smarrito il senso d’un destino comune dei romani. Perché è successo? Le risposte sono tante: crisi della politica, incuria, malgoverno, speculazione edilizia, corruzione… e altro. Ma soprattutto mancanza di visione e di un’idea per la città.
Nel 1871, dopo la proclamazione di Roma capitale, una sera il grande studioso tedesco Mommsen pose, molto preoccupato, questa domanda a Quintino Sella: «Ma che cosa intendete fare a Roma? Questo ci inquieta tutti: a Roma non si sta senza avere propositi cosmopoliti». E Sella rispose: «Sì, un proposito cosmopolita non possiamo non averlo a Roma: quello della scienza». Ora, a parte la risposta opinabile, si vede come il politico piemontese si fosse posto il problema di un’idea «cosmopolita» che saldasse Roma al mondo, che non era più quella di capitale dell’universalismo cattolico. Non è retorica. Roma non può solo sopravvivere, senza una visione che valorizzi le tante risorse della città: capitale di uno Stato del G8, centro del cattolicesimo, spazio di incontri tra mondi religiosi, città dal patrimonio culturale e artistico unico, ricca di risorse culturali, educative, economiche e di tanto altro. Una città nel cuore del Mediterraneo, un crocevia decisivo di incontri e scontri, di traffici e connessioni.
Nella Roma caotica del dopoguerra, si staglia ancora un periodo di idee sulla città, gli anni Sessanta-Settanta, conclusi nell’umiliazione del terrorismo. Dopo i Trattati di Roma del 1957, la città vive una stagione cosmopolita: le Olimpiadi nel 1960 (con più di 5.000 atleti) e il Concilio Vaticano II dal 1962 al 1965 (con la partecipazione di 2.450 padri conciliari e una grande attenzione mondiale). Ne segue il convegno sui «mali di Roma» del febbraio 1974, in cui più di 5.000 romani, sotto l’impulso del vicario Poletti, discutono del presente e del futuro della città. Tanto che, pochi anni dopo, il sindaco Argan poteva parlare di un’idea di Roma.
Non si ripete, però, il passato. Ma, per avere un futuro, bisogna guardare Roma in una prospettiva larga e universale, valorizzando le connessioni, cogliendo la posizione geopolitica di capitale europea nel cuore del Mediterraneo, crocevia internazionale.
Il Giubileo del 2025 è alle porte. Questo non esonera dalla responsabilità basica del buon governo, quello che purtroppo è mancato a Roma: c’è urgente bisogno di una buona amministrazione. Ma non esonera dal fatto che Roma ha bisogno di una rinnovata passione civile dei suoi cittadini, per il suo futuro, per i mondi più periferici. Senza questo slancio, un’amministrazione da sola non ce la fa. Anche se le speranze e le visioni ravvivano la passione e il senso di appartenenza a una città che si chiama Roma.
Diceva quel grande sindaco di Firenze, Giorgio La Pira che fece della sua città un crocevia mediterraneo e internazionale: «Non ascoltate, Signori Consiglieri, coloro che dicono in modo tanto superficiale: bisogna interessarsi delle lampadine e non della pace. Costoro ignorano una cosa essenziale per il destino anche produttivo di Firenze. Ignorano, cioè, che solo aprendo le porte esterne della città, è possibile aprire, ed ampiamente, quelle interne. Perché attraverso le porte esterne passano non solo i grandi ideali… ma passano anche i grandi flussi finanziari, economici, turistici, commerciali».