Fonte: Corriere della Sera - SETTE
Il 27 gennaio scorso si è celebrata la Giornata della Memoria, la commemorazione delle vittime della Shoah, con celebrazioni in tutta Italia. Con il passare degli anni, queste sono aumentate. Non tutti sono d’accordo. Alcuni sostengono che si stia andando a una ritualizzazione della memoria. Temono che una memoria imposta e formale provochi reazioni negative o paradossalmente l’antisemitismo. Due anni fa, Elena Loewenthal ha pubblicato un libro, Contro il Giorno della Memoria «Il pubblico», ha scritto, «s’annoia in fretta, non ama le ripetizioni, vuole in un modo o nell’altro risultare “sorpreso”… E questo pubblico, non va dimenticato, è composto in gran parte da studenti». Sono osservazioni da prendere sul serio, proprio in un periodo in cui sono scomparsi i testimoni di quella tragedia. La memoria però è una conquista: i sopravvissuti alla Shoah, dopo la guerra, si sono scontrati con società che non volevano essere turbate dal ricordo del genocidio e delle complicità con esso. La Shoah è un punto di svolta della storia contemporanea europea, da cui vengono le scelte irreversibili per la democrazia contro ogni forma di totalitarismo. Non è poco. È una conquista della coscienza da non sprecare in riti stanchi.
In un mondo globale, dove spesso tutto è appiattito, coltivare l’identità nazionale è ricordare la storia. E la Shoah è un passaggio forte della nostra storia. Mostra a che cosa portano la mancanza di libertà, la guerra, l’odio etnico, il razzismo, l’antisemitismo. Cedere anche un poco a uno di questi “mali” significa porsi su un piano inclinato che fa scivolare irrimediabilmente per una strada tragica. Certo, i riti non prevengono queste cadute. Tuttavia, da anni, partecipo alla manifestazione per ricordare la razzia degli ebrei di Roma, il 16 ottobre 1943, e la trovo significativa per la presenza di giovani e di nuovi italiani (cioè immigrati, anche
musulmani). La memoria ha bisogno di luoghi, segnati dalla storia, ma anche aperti al presente. Un grande luogo del ricordo sono letteratura e storia: narrare il genocidio è far dialogare il passato con il presente. Ho letto molto sulla razzia degli ebrei romani, ma ci sono sempre nuove acquisizioni. Un recente libro di Gabriele Rigano,L’interprete di Auschwitz mostra un punto dì vista originale: quello di Arminio Wachsberger, ebreo fiumano e poliglotta, catturato a Roma e sopravvissuto.
Mai si finisce di esplorare la Shoah in tutte le sue pieghe. Ci sono poi i luoghi concreti della deportazione in Italia: Risiera San Sabba (oltre gli ebrei, venivano raccolti qui, e talvolta eliminati, politici e partigiani), il campo di Fossoli (quasi 3000 ebrei di passaggio – tra cui Primo Levi – e resistenti e politici), quello di Ferramonti (più di 2000 persone, di cui 1600 ebrei) e altri. Questi luoghi hanno un molo locale e nazionale. Vanno valorizzati e recuperati. Un’operazione intelligente è stata fatta alla Stazione Centrale di Milano: si è dedicato il cupo sotterraneo del binario 21 (da cui partì il trasporto per Auschwitz) a spazio della memoria “contro l’indifferenza” (si legge in una grande scritta). Non è solo un memoriale, tanto che – come mostra un recente libro, Milano, 30 gennaio 1944, Memorie della deportazione del Binario 21– questo spazio si è aperto recentemente all’accoglienza ai rifugiati in transito alla Stazione. I valori della memoria ispirano un modo “umano” di guardare ai drammi del presente, alla guerra e alla pace, oltre a riproporre il molo particolare deffebraismo nella nostra storia e nel futuro. Senza incontrare la memoria in una storia o in luoghi concreti, non solo si rischia di ripetere il passato, ma di essere indifferenti nel presente.