Fonte: Famiglia Cristiana
Dopo 500 giorni di guerra civile sono 2,5 milioni le persone a rischio di morte per fame. L’editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana.
La guerra in Sudan dura da 500 giorni. Milioni di persone in fuga, 150 mila morti forse (ma chi li ha contati?) e l’allarme – inascoltato – delle organizzazioni umanitarie: circa 2,5 milioni di persone a rischio di morte per fame nei prossimi mesi. Molti Stati importanti (tra cui diversi Paesi arabi del Golfo, Russia e altri) finanziano i contendenti con armi e denaro, contribuendo a un’economia di guerra.
Il Sudan è un prototipo dei conflitti odierni: povero per la sua popolazione, ma ricco di bestiame, grano e oro. In quelle terre controllare il commercio del bestiame (milioni di capi all’anno venduti nel Golfo) rappresenta una manna, come la recente scoperta dell’oro, con decine di miniere sfruttate fuori dai circuiti ufficiali. Le parti in guerra si scontrano per il controllo delle ricchezze.
La guerra in Sudan è iscritta nei libri contabili di molte società – anche occidentali – che ci stanno guadagnando. Ecco perché il termine guerra “dimenticata” non è appropriato: è un conflitto di tipo nuovo in cui si combatte, sostenuti dalle reti economico-finanziarie globali, dove legale e illegale si confondono. Come se l’economia avesse creato un sistema di vasi sanguigni parallelo a quello ufficiale, tanto da non poterli più distinguere. Avviene anche altrove. Altrimenti come sarebbe possibile che Paesi che non ne producono siano diventati i maggiori esportatori di risorse energetiche o minerarie? Come la Repubblica Democratica del Congo, l’Afghanistan o gli Stati del Sahel, anche il Sudan è caduto nel girone degli Stati falliti dai quali si traggono ingenti risorse: è l’economia predatoria che ha imparato a creare un sistema produttivo illegale, senza l’imbarazzo di governi e istituzioni, facendo oscuri commerci.
Quello che è veramente abbandonato in Sudan sono le persone: nemmeno le agenzie dell`Onu possono entrare per sfamare la popolazione isolata. Di recente la Comunità di Sant’Egidio e altre organizzazioni hanno lanciato un grido d’allarme. Accade in molte altre crisi, come a Gaza o nel Sahel: gli operatori umanitari, una volta rispettati e considerati imparziali, oggi si scontrano con il divieto di entrare laddove c’è bisogno. Sembra di essere tornati alla guerra del Biafra: lo scandalo di un popolo abbandonato e in pericolo creò le premesse per uno slancio umanitario, in cui nacque Médecins sans frontières. Fino ad allora erano i governi (coinvolti nei conflitti) a decidere se fare entrare o no gli aiuti, usati come un’arma. Dalla guerra del Biafra, invece, s’imposero il diritto al libero accesso e la neutralità dei soccorsi.
Oggi si torna indietro con tante giustificazioni: terrorismo, accuse di parzialità, spionaggio. Ne vediamo i terribili effetti anche nella guerra in Ucraina. Recentemente l’Economist ha messo in copertina la guerra in Sudan come “catastrofe per il mondo”.
Eppure il mercato globale conosce bene questa guerra e in parte sa come approfittarne. Quasi nulla spaventa più le Borse salvo l’inflazione. Non si agitano né per le grandi guerre né per le piccole; né per la chiusura parziale del Mar Nero né per quella a singhiozzo del canale di Suez; né infine per i rischi di guerra nel Mar della Cina.
Il mercato si adatta a tutto e ha appreso ad approfittare di ogni vicenda. Forse è da lì che occorre ripartire per cambiare i destini di chi è abbandonato davvero.