Fonte: Avvenire
Si è chiusa con Benedetto XVI un’epoca della Chiesa. La partecipazione di molti alle celebrazioni in sua memoria (più nelle diocesi che nell’affluire a Roma) ha mostrato il cordoglio per la scomparsa del Papa, seppure ritiratosi da quasi dieci anni. Una memoria e un affetto che non sono apparsi limitati, come qualcuno vorrebbe, al mondo tradizionalista.
Ricordare Benedetto non è stata una manifestazione “non simpatizzante” verso Francesco. Molta gente l’ha ricordato semplicemente come Papa. Don Mazzolari, un prete che ha avuto difficoltà con Roma, intitolava un piccolo libro, pieno di affetto: “Anch’io voglio bene al Papa”. Aggiungeva però: «Per volergli bene ho bisogno di dare un volto al pastore, un cuore alla Pietra. Così per capirlo… ».
In tempi lontani, il Papa era solo un nome, pronunciato in latino. Invece, fin dall’Ottocento e, poi, sempre più, è diventato un compagno per la Chiesa e le generazioni che si susseguono. I media lo hanno avvicinato alla gente. Ne hanno inquadrato il volto e talvolta il dolore. Il Papa è un uomo pubblico in modo differente dai politici. Gli si chiede pastoralità, paternità e vicinanza. Il senso dei fedeli spinge a cercare in lui il pastore e l’uomo. La sensibilità della gente (anche mutevole) incontra un uomo con la sua storia e il suo modo di essere. In vari Papi si è notato come cambino con l’elezione, ma evidentemente resta l’impronta di una vita.
Benedetto XVI si è mosso nella continuità con Giovanni Paolo II. Ricordiamo tutti gli applausi scroscianti ogni volta che citava «il mio amato predecessore». Lui stesso confessò: «Quanto ci siamo sentiti abbandonati dopo la dipartita di Giovanni Paolo II!». Era la sensazione di buona parte dei cardinali che l’avevano eletto, considerandolo il più vicino al Papa defunto. Ma quant’era diverso dal Papa messianico e carismatico! Nonostante la consuetudine di più di vent’anni e un sentire teologico prossimo. Joseph Ratzinger non avrebbe nemmeno sognato il cambiamento dell’Est. Si contentava di essere «umile lavoratore della vigna del Signore». Ha scritto nella Deus Caritas est: il cristiano «in umiltà farà quello che è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il nostro mondo, non noi».
Chi aveva vissuto drammaticamente e accanto alle vittime la Seconda guerra mondiale, come Karol Wojtyla, sapeva che, per affrontare il male nella storia e trovare le vie del bene, bisogna esagerare. Ratzinger è stato profondo, equilibrato, serio, onesto, non carismatico. Il suo contributo è stato soprattutto una “fede pensata” con ragionevolezza, passione intellettuale, finezza. Lo si è detto giustamente in questi giorni. Wojtyla volle incarnare l’estroversione della Chiesa oltre tutti i limiti (anche del suo corpo). Ratzinger aveva la misura e la solidità dell’europeo d’Occidente.
C’è chi l’ha visto, o voluto, simbolo del tradizionalismo, del conservatorismo teologico, del rigore nel governo. Aspettative per lo più fallite. Ora, con la morte, lo si vuole – in qualche settore – come una bandiera tradizionale, capace di andare controcorrente rispetto allo spirito del mondo, ben distinta dalla Chiesa «in uscita» di Francesco. Benedetto XVI non l’avrebbe voluto. Ha amato il silenzio, che non sempre gli hanno concesso. Ora che è scomparso, non può essere un simbolo, se non costruito in maniera mitica. Non fosse che per il suo senso profondo della continuità del servizio petrino, nella diversità delle umanità e delle opzioni. Ma anche per la complessità del suo pensiero teologico.
Papa Bergoglio è stato una scelta diversa dei cardinali rispetto ai Papi europei. Ha alle spalle un vissuto ecclesiale e un pensiero legato alla Chiesa latinoamericana, pur nella continuità già espressa nella Lumen fidei, in cui Francesco scrive rispetto al predecessore: «assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi».
Oggi la continuità è resa più complessa anche dalla sfida del confronto con mondi nuovi fuori dall’Europa.
Quella odierna è una Chiesa globale in tutti i sensi, sia per dimensioni culturali e geografiche, sia per spaesamento delle persone e delle comunità. Oggi la morte di papa Benedetto non apre nella Chiesa a chi sa quali scenari conflittuali, analizzati e forse auspicati da alcuni, ma rinvia il discorso al cattolicesimo europeo in affanno, di cui il defunto è stato l’ultimo grande esponente. Francesco ha parlato della (e alla) stanchezza europea in varie occasioni. La risposta non può essere solo la laboriosità degli episcopati e dei vari soggetti ecclesiali. Occorre una visione, senza cui ci si omologa lentamente al livello rassegnato di tanta coscienza europea. E la guerra in Ucraina è una grande sfida alla coscienza cristiana: un cristianesimo europeo, che non si consegni alla nostalgia del passato, ma che non accetti nemmeno l’irrilevanza.
La via della rilevanza non è quella del potere, bensì dell’amore per un mondo che soffre, che appassisce o che è povero. E, nel 1967, il quarantenne Joseph Ratzinger scriveva: «Il concetto conciliare contrario a “conservatore” non è “progressista”, ma “missionario”».