Siamo in un mondo difficile. Qualche volta le informazioni quotidiane appaiono un bollettino di guerra. In primo luogo, sull’Ucraina, così colpita. Ci sono conflitti, su cui si è spenta l’attenzione o non si è mai accesa. Penso al Sudan, alle migliaia di morti, i quasi tre milioni di rifugiati interni e più di un milione di profughi all’estero. Scrive il filosofo coreano Byung-chul Han: “Le informazioni da sole non spiegano il mondo”. Sembra una situazione troppo complessa anche per gente che, seppure desiderosa di interessarsi, fatica a seguire, non vede via d’uscita, si sente impotente. Tante volte l’impotenza favorisce l’indifferenza. Eppure, il lungo corteo di immigrati e rifugiati alle nostre porte ricorda che c’è un mondo dove si soffre tanto per la guerra, i cambiamenti climatici, la miseria, la fame.
Sembra che l’indifferenza sia una coltre protettiva, favorita dalla concentrazione su di sé e sul proprio mondo. E che ci sia poco da fare, magari con qualche eccezione di sognatori e idealisti. Ma sotto questa coltre di distacco, emerge invece una fame di parole di pace, quando ce n’è l’occasione. In Italia, ma anche in Europa. Lo si è constatato, la settimana scorsa, all’Incontro internazionale nello spirito di Assisi dal titolo L’audacia della pace svoltosi a Berlino. La vasta partecipazione dei berlinesi ai dibattiti e alle manifestazioni, in una città dove le Chiese sono minoritarie, ha rivelato un grande interesse per le tematiche della pace e della guerra. Anche da parte dei giovani, pieni di interrogativi sul futuro.
L’espressione “audacia” conforta quanti sentono che bisogna fare di più. Audacia della pace significa credere che possa esistere un’alternativa alla guerra. Quindi bisogna investire di più sulla diplomazia e nel dialogo per cercare soluzioni giuste e pacifiche. Questo non significa intelligenza con il più forte o con l’aggressore oppure svendita della libertà altrui per la nostra tranquillità. Diceva J. F. Kennedy “non dobbiamo negoziare per timore, ma non dobbiamo mai avere timore di negoziare”. L’audacia è difficile, ma necessaria di fronte a situazioni bloccate o guerre che si eternizzano. Václav Havel scriveva: “La politica non può essere solo l’arte del possibile… ma piuttosto deve essere l’arte dell’impossibile, cioè rendere migliori se stessi e il mondo”.
Papa Francesco, maltrattato da qualche opinionista o politico come irrealista, è voce di riferimento per tanti. Nonostante non sia possibile per lui dettagliare la via per la fine della guerra, mette sempre al centro la pace come obiettivo del futuro. Alle parole di pace, si accompagnano i fatti: la missione del cardinale Zuppi, che ha toccato Kyiv, Mosca, Washington e Pechino. Il Papa non accetta l’impotenza: parla, bussa, invia messaggeri. In questo non è solo. Nonostante l’apparenza, tanta gente cerca parole di pace. Il desiderio di pace non è egoismo, desiderio di stare tranquilli, di non pagare conseguenze per il conflitto. Ma è rivolto soprattutto a chi subisce la guerra. In particolare, all’Ucraina, aggredita dai russi, che soffre tanto, con una popolazione colpita dai bombardamenti, mentre troppi hanno lasciato il Paese.
Che significa fame di pace? Quale soluzione si offre? Quali mezzi per influenzare le vicende? Innanzi tutto, vuol dire non dimenticare la guerra, anzi le guerre: tenerne viva la memoria e coinvolgersi. Un’opinione pubblica attenta è importante, anche se i nostri Paesi europei hanno un’influenza relativa sul conflitto in Ucraina e scarsa presa su altri conflitti. Interessarsi, partecipare, aver di mira la pace, non significa ottenere subito il “miracolo” della fine della guerra. Una fedele attenzione e una costante pressione coadiuvano le tante forze che nel mondo lavorano per creare ambiti di dialogo. Tutto è connesso, più di quanto sembri.
I cristiani credono alla forza della preghiera per la pace. Al meeting di Berlino, Angela Kunze, che aveva 25 anni nel 1989, ha raccontato come dal settembre di quell’anno si radunasse con tanta gente a pregare in una chiesa vicino al Muro, pur circondati dalla polizia: «Sono convinta che le preghiere hanno un potere trasformativo, possono accelerare il cambiamento della società e abbattere i muri».
Un ministro comunista disse sprezzante: «Ci aspettavamo di tutto, ma certo non candele e preghiere». Del resto, la storia è piena di sorprese: processi dolorosi e molto lenti, alla fine e improvvisamente, trovano uno sbocco positivo. Ci siamo troppo abituati al fatto che non avere soluzioni subito significhi che le soluzioni non ci sono. Coltivare insieme visioni di pace tiene viva una speranza per i popoli che soffrono la guerra. Può sembrare poco, ma ha molto valore.