21/05/2009 Il discorso pronunciato da Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, nel ricevere il Premio Internazionale Carlo Magno 2009, ad Aquisgrana (Germania)

“Sono molto onorato di ricevere questo Premio, che mi inserisce, cinquantesimo, in una prestigiosa lista di premiati. Ringrazio la Commissione direttiva del Premio Carlo Magno per l’onore che fa alla mia persona. Considero tale onore rivolto soprattutto alla Comunità di Sant’Egidio, con cui si confondono la mia vita e la mia azione. Sono grato alle parole penetranti e affettuose del mio grande amico Michel Camdessus. Ringrazio Pat Cox per la sua laudatio generosa.

Mi onora ricevere un premio europeo, che parla all’Europa, in una città-crocevia di incontri, simbolo di dialogo tra genti diverse. Qui, nel 2003, Sant’Egidio con il Vescovo di Aachen, mons. Mussinghoff, che saluto con affetto, celebrò un grande incontro tra religioni nello spirito di pace. Allora vidi questa città proiettarsi come messaggio in Europa. E’ una scoperta che si rinnova anche oggi.

La scelta della Commissione del Premio non è caduta su di un politico, come invece avviene normalmente. Mi interrogo sulle ragioni della scelta. Dal 1950, dalla fondazione, il Premio si ispira a “libertà, umanesimo, pace”. Tra i premiati c’è Alcide De Gasperi, mio grande compatriota, fondatore della democrazia italiana, uomo di fede e di grandi sogni nel tempo oscuro del fascismo e della guerra. Divenuto leader dell’Italia rinata, non ha rinunciato a sognare. Credeva che la libertà e la pace fossero garantite solo da un’Europa più unita. Per lui e gli altri fondatori, l’Europa era considerata un ananke, una necessità, un destino storico.

Sì, destino storico per chi aveva vissuto la tragedia della guerra mondiale. Ancora una volta una guerra europea aveva incendiato il mondo. L’Europa non poteva più distruggersi e distruggere il mondo. Dal ripudio della guerra e di una visione solo nazionale della politica, è nato il sogno dell’unità. Bisognava fare qualcosa di radicalmente nuovo! Di fronte alla realtà inimmaginabile della Shoah, non bastavano le logiche delle politiche nazionali.

Allora si sognò l’inizio di una grande storia. Sì, l’unità come ananke,  necessità della storia. Oggi, l’Europa, più ricca che nel dopoguerra, avverte la stessa necessità?

C’è una pericolosa tendenza alla frammentazione e al localismo. C’è paura d’Europa tra la gente che si sente espropriata da un mondo globalizzato. C’è timore che l’Unione voglia imporre i suoi modelli di vita. C’è disaffezione nei confronti di istituzioni che appaiono lontane, anche se siamo alla vigilia di un voto europeo. Europa sì, ma come condominio, senza l’urgenza della storia. Un’Europa, non passione e sogno, ma sfondo remoto alle politiche nazionali e locali. Non si può solo condannare questi atteggiamenti che vanno compresi: donne e uomini spaesati in un mondo globalizzato si rifugiano nel loro heimat.

Ma il nostro heimat non dura a lungo senza Europa. Non bastano i piccoli passi, senza gusto dell’Europa, né capacità di comunicazione ai cittadini del continente. Si resta prigionieri della cronaca dei dibattiti dei nostri paesi, gridati e dimenticati con rapidità. Tutto questo non è storia, ma cronaca. L’Europa scrive ancora la storia o si limita alla cronaca?

Il grande storico polacco, Geremek (lottatore contro il comunismo a mani nude) diceva: “la storia è un misto di scienza e di poesia”. Il destino europeo deve divenire la poesia che ispira il futuro. Questo è fare la storia. Il realista De Gasperi fu appassionato sognatore europeo.

Non ci si illuda! Anche se non sembra, ci troviamo innanzi a una scelta tragica, che deciderà dell’Europa nell’intero secolo. Senza una visione unitaria ed europea, avverrà quel congedo dalla storia, di cui parla Benedetto XVI. Saremo prigionieri della cronaca, che riempirà gazzette e piccoli schermi, ma non sarà storia. L’Europa uscirà dalla storia del mondo.

L’impatto con la globalizzazione, con l’India, la Cina, con civiltà, economie e demografie in ascesa, non potrà essere condotto in modo isolato dai singoli paesi. Se non saremo insieme, i  paesi europei saranno quantité négligeable. Così i nostri valori e identità si diluiranno nelle correnti della globalizzazione. E sarà una perdita per il mondo e la civiltà. E’ un’illusione navigare nella storia globale disuniti. Se non ci sarà una vera unità europea, non ci saranno i paesi europei nel mondo. Resterà il ricordo di antiche potenze, di pagine gloriose o infami. Ma passate. Si perderanno i valori europei di libertà, pace e umanesimo, se non ci sarà l’Europa.

Questa visione può apparire catastrofica o troppo proiettata sul futuro. Ma non siamo troppo abituati a vivere senza visioni? Scriveva in una poesia Giovanni Paolo II: “io credo tuttavia che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di visione”. E concludeva: “Se soffre per mancanza di visione –deve allora aprirsi la strada fra i segni…”.

Il Premio concessomi è un segno che va oltre la mia persona. Forse comprendo meglio perché mi è stato attribuito. Non sono politico o uomo delle istituzioni. La mia vita si lega alla Comunità di Sant’Egidio, nata a Roma nel 1968, diffusasi nell’Europa dell’Est e dell’Ovest, in parecchi paesi africani, asiatici, dell’America del Nord e del Sud. E’ realtà di uomini e donne, credenti, amici dei più poveri, attori di dialogo tra le religioni, ma anche tra laici e credenti. Soprattutto è una realtà delle strade, delle città, delle periferie delle città europee: da Roma a Aachen, a Berlino, a Parigi, a Bruxelles, a Kiev a Napoli, per citarne alcune. Realtà europea, Sant’Egidio,  sente la passione di vivere e di operare fuori dell’Europa.

Il Premio è un segno per me, un appello agli europei, ai cristiani. Da sola la politica non ce la fa.

Parlando di cristianesimo, siamo ben lontani dal confessionalizzare il continente. Un grande premiato è stato frère Roger Schutz, riformato e svizzero, nel cuore della guerra, cominciò a Taizé una vita monastica ecumenica, facendone un santuario di pace e di fede, crocevia per i giovani europei. Anziano, fu ucciso nel 2005, mentre era in preghiera in mezzo ai giovani in chiesa. La sua morte parla di una vita indifesa, offerta ai giovani europei e del mondo sulla collina di Taizé. Il cristianesimo di quest’uomo e di tanti altri inquieta una coscienza europea stanca o miope.

La fede cristiana –ed è quel che viviamo a Sant’Egidio- chiama a non vivere per se stessi. Scrive l’apostolo Paolo:

“Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e resuscitato per loro.” (2Cor 5,15)

Il richiamo forte al Vangelo di Gesù, portato da Paolo in Europa, dalla Grecia a Roma, inquieta la cultura del vivere per sé. L’Europa non può vivere per sé. La prospettiva non può essere solo l’espansione economica della propria regione o del proprio paese. Vivere per sé diventa una logica tutta mercantile. Il materialismo pratico, dopo quello marxista, domina tanta parte del costume europeo: il mercatismo divora gli spazi del gratuito nella vita sociale. Infatti, assistiamo alla crisi della comunità, familiare, locale. Anche il perseguimento dei propri interessi ha bisogno di spirito, di generosità, di visione.

Nel Novecento i paesi europei, ammalati di nazionalismo, sono andati alla guerra degli uni contro gli altri. Quanti dolori e vite perdute! E’ il più grande furto della storia –diceva Settimia Spizzichino, ebrea romana deportata in Germania. Oggi, siamo in un’altra stagione: la cultura del vivere per sé conduce all’egoismo nazionale, locale, regionale, all’assenza di visioni. Ma, a forza di vivere per sé, un uomo e una donna muoiono; si spegne un paese, una comunità, una nazione.

Sì, l’Europa rischia il congedo della storia per declinare nella cronaca. Gli europei, dopo essere stati conquistatori del mondo, si sono ritratti da esso, quasi spaventati. Non vogliamo più contare. Forse per non sbagliare. E’ il politically correct di oggi. Non si tratta di ripetere gli errori del passato. Bisogna pensare, nel quadro dell’unità europea, un nuovo modo di essere nella storia del mondo.

“Se soffre per mancanza di visione –deve allora aprirsi la strada fra i segni…”-scriveva Giovanni Paolo II. Non è un segno la domanda di Europa che viene da tante parti del mondo?

In Africa, in America Latina, durante i miei viaggi, avverto un grande interesse per l’Europa e le scelte degli europei. Il mondo ha bisogno dell’Europa, del suo umanesimo, della sua forza ragionevole, della sua capacità di mediazione e di dialogo, delle sue risorse, della sua  intrapresa economica, della sua cultura. Schuman, padre fondatore dell’Europa, scriveva: “L’Europa unita prefigura la solidarietà universale del futuro”.

L’Europa è stata l’origine di due guerre mondiali e della Shoah. Non potrà essere invece un paradigma di pace e di solidarietà universale? Non potrà dare un contributo decisivo alla storia di pace e umanesimo del mondo, invece che degradare nella cronaca?

Sì, l’Europa ha una missione. Penso all’Africa, dove vive, lotta e spera almeno la metà della Comunità di Sant’Egidio, che è africana. Il presidente della Repubblica italiana, Ciampi, Premio Carlo Magno, ha dichiarato: “Abbiamo di fronte a noi un compito epocale: collegare saldamente e durevolmente il futuro dell’Africa all’Europa”. Una storia dolorosa e ricca lega l’Europa e l’Africa. Ma molti paesi europei si stanno ritirando dall’Africa, che resta solo la terra degli immigrati verso l’Europa. La collaborazione allo sviluppo dell’Africa, la lotta alla malattia (penso alla cura dell’AIDS), e alla guerra, sono compiti europei. Sono la vera riposta al flusso inarrestabile dell’emigrazione, che non sarà fermato alle frontiere o dai controlli nel Mediterraneo. E’ la rinascita economica e di speranza in Africa che lo ferma!

Credo molto nel sogno del presidente senegalese Senghor, uomo di cultura europea e africana: Eurafrica, due continenti uniti su di un piano di uguaglianza, l’uno che ha bisogno dell’altro. La prima missione dell’Europa si chiama Africa. Lì, trova senso l’essere uniti.

L’Europa nel mondo è un segno di pace. E’ un continente da sessant’anni in pace. L’Europa una è molteplice: differenti lingue, tradizioni, culture, religioni, odori e sapori. L’Europa, nelle sue diversità, se unita, realizza la civiltà del convivere. E’ la civiltà che manca al mondo di globalizzazione omogeneizzante e appiattente, che reagisce con gli scontri di civiltà e di religione; che manca a un’economia inumana e senza umanesimo. La civiltà del convivere è la nostra risposta al terrorismo e a fondamentalismo.

L’Europa, diversa, unita, incarna la civiltà del convivere: suoi ingredienti sono il dialogo, il rispetto per ogni libertà, l’arte del vivere insieme. “Tutti parenti, tutti differenti” è il nostro sogno. Lo esprimo con le parole di Germaine Tillon, che conobbe il lager di Ravensbruck.

Forse oggi abbiamo più bisogno di Europa che ieri. Altrimenti la globalizzazione ci renderà irrilevanti e a, ancor peggio, farà lo stesso con i nostri valori. Dobbiamo avere un’Europa unita, con la sua missione, per essere europei, per non diluirci, per esistere in un mondo grande e terribile, come diceva Antonio Gramsci, un italiano, comunista, tradito da Stalin. Più Europa unita farà il grande mondo assai meno terribile.

L’Europa deve essere una passione nostra, non qualcosa di lontano e nebbioso. Una passione, perché una necessità: ananké. Quanto è miope –ma non è spesso miope la politica dei nostri paesi?- l’operato di quanti guardano al futuro dei nostri paesi con sguardo prigioniero della cronaca. Il sogno e la visione sono più realisti della miopia, venduta come realismo. Giovanni Paolo II, forse l’ultimo grande leader europeo, nel 1978, lanciò il sogno di un’Europa unita dall’Atlantico agli Urali. Sembrò un’utopia. La Germania unita sembrava un’utopia fino al 1989. Ma la storia è piena di sorprese ed è mossa, più di quanto sappiamo, dalle correnti profonde delle passioni generose e dello spirito.

L’Europa non è un sogno lontano. Cari amici, noi siamo europei più di quanto ne siamo consapevoli. I cittadini dei nostri paesi sono più europei di quanto sanno. Le istituzioni europee contano molto nei vari paesi. Il tessuto umano e culturale, in cui viviamo, è europeo. C’è un continuo travaso. I giovani si muovono in modo europeo. Ogni impresa di valore sul continente, si confronta con lo scenario europeo.

Dobbiamo – in un certo senso – assaltare il palazzo del potere, quello dell’Europa. Non con la violenza, ma assaltarlo con la passione europea e le idee. Per aiutare i governanti a guardare oltre e sognare un’Europa dei popoli e che gli europei siano popolo. C’è fretta. L’accelerazione verrà anche dalla volontà dei cittadini, che debbono prendere tener alta la visione europea. Le visioni sono icone di speranza. Aiutano a vedere la speranza, suscitano la passione del futuro. Molto possiamo noi, europei della strada. Come diceva il grande Hillel, maestro ebraico del tempo di Gesù: “quando mancano gli uomini, sforzati tu di essere uomo!”.