Fonte: Corriere della Sera - SETTE
La lingua è un sismografo che registra i cambiamenti sulla scena mondiale. L’avanzata inarrestabile dell’inglese, ben prima del processo di globalizzazione, è un elemento decisivo dell’occidentalizzazione di tante società. Altre lingue poi divengono sempre più importanti, come il cinese o l’arabo, mentre lo spagnolo cresce negli Stati Uniti. Il russo resta rilevante, ma ha conosciuto una flessione con la fine dei regimi comunisti dell’Est. E l’italiano? Nel Novecento – scrive Tullio De Mauro – per la prima volta in tremila anni, nella penisola è avvenuta la convergenza degli italici su una sola lingua comune. È stato vinto l’analfabetismo. L’italiano così è divenuto, come mai nella storia, patrimonio di tutto il popolo oltre che lingua nazionale. Il fatto non è da poco. All’estero, invece, le cose sono più complicate.
Nel Mediterraneo, specie nel mondo turco, l’italiano era una lingua franca almeno sino al XIX secolo. Oggi all’estero è parlato dagli emigrati (in parte) e dai loro discendenti, nonostante la disaffezione tipica dell’integrazione. È usato nel governo della Chiesa cattolica. Gli ultimi tre Papi, non italiani, ne sono stati testimonial in tutto il mondo. L’italiano è poi veicolo dell’integrazione per gli immigrati nel nostro Paese.
Tutti ricordiamo come, nell’Albania comunista, il Paese più chiuso dell’Est, vedere la tv italiana e parlare la nostra lingua fosse un’espressione di libertà. Ma il mondo cambia in fretta e oggi, in Albania, con la televisione digitale, i nostri programmi sono meno seguiti e la lingua decade. L’italiano, però, resta importante. Qualcuno ne parla come la quarta lingua più studiata nel mondo. Difficile dirlo: certo è molto richiesta in tanti Paesi. Il vero problema è la qualità della risposta italiana alla vasta domanda di apprendimento. L’investimento sull’insegnamento nel mondo è scarso. La Società Dante Alighieri, storicamente deputata alla diffusione del nostro idioma, ha 415 comitati e circa 200.000 studenti nel mondo, ma conta molto sul volontariato. Infatti, nonostante lavori tanto, riceve come finanziamento statale solo 650.000 euro annui. È impressionante il paragone con altri Paesi europei che, da tempo, hanno capito come la conoscenza allargata del proprio linguaggio sia una risorsa nazionale. Lo Stato francese, così attento alla francofonia, investe 760 milioni annui di euro per lo studio del francese all’estero. La Gran Bretagna, a fronte dell’universale domanda d’inglese, dà al British Council ben 826 milioni. La Germania ne offre al Goethe 218, per l’apprendimento del tedesco. L’Istituto spagnolo Cervantes ne riceve ottanta. Anche il piccolo Portogallo ha da poco attrezzato l’Istituto Camòes per l’apprendimento del portoghese e l’ha dotato di 12 milioni annui. L’Italia non investe sulla diffusione dell’italiano. Eppure l’internazionalizzazione del Paese necessita di politiche per rendere accessibile e attraente questo studio nel mondo. Infatti esiste una vera “italsimpatia”, un`attrazione forte, che è anche quella per un mondo di qualità, di storia, di cultura, di stile, di arte e musica e tant`altro.Un’italianità, che non è aggressiva e imperialista, ma parla di umanesimo e di buon vivere (si pensi alla cucina). Così il linguista Luca Serianni commenta questa attrazione: è “una prova del potere, anche economico se pensiamo al relativo indotto, di un prestigio essenzialmente storico-culturale”. Intendiamo incrementare questo capitale?