Fonte: L'Osservatore Romano
Siamo a venticinque anni dall’evento di Assisi del 1986: il mondo è tanto cambiato. Allora la cultura occidentale considerava le religioni come una realtà che la modernità avrebbe spazzato via o ridotto agli angoli privati della vita. Il beato Giovanni Paolo II, al contrario, aveva intuito la forza pubblica delle religioni, nonostante la secolarizzazione. Sapeva che le religioni potevano essere attratte dalle passioni belliciste. Preoccupato per la guerra fredda, convocò i leader cristiani e delle religioni mondiali ad Assisi. Non mancavano modelli d’incontro tra religioni: spesso dialoghi, non rispettosi della sostanza di fede — che riposavano sull’idea di religioni in fondo tutte uguali — si erano alternati ad appelli dei leader religiosi per l’una o l’altra causa politica.
Giovanni Paolo II era lontano da tali modelli. Volle Assisi come una giornata di preghiera e di silenzio, in cui non si discutesse o si negoziasse: diversa dai congressi interreligiosi. Niente di più lontano dalla circolante idea dell’Onu delle religioni. Il fulcro fu l’invocazione di pace: «Forse mai come ora nella storia dell’umanità — disse — è divenuto a tutti evidente il legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il gran bene della pace».
L’evento stupì il mondo, colpito dall’immagine del Papa tra i leader religiosi. Qualcuno ne parlò come di uno spettacolo televisivo più che una seria discussione. C’era invece una bellezza di quell’immagine del 1986, che conquistò la gente. Anche la pace ha bisogno di toccare il cuore dei popoli, talvolta affascinati dalla guerra — come si vide dopo il 1989 con il risorgere delle passioni belliciste e il culto della guerra. L’evento del 1986 interpretò l’«estetica» della pace, forte di una carica spirituale. Fu — ha scritto Benedetto XVI — una «puntuale profezia». Ci volevano una tregua dello spirito e delle armi, richieste da Papa Wojty?a il 4 ottobre 1986 a Lione in un appello — troppo dimenticato — a politici e signori della guerra.
Giovanni Paolo II respinse sempre chiaramente l’idea di Assisi come la manifestazione di una specie di interreligione, auspicata da circoli ristretti. La volle come la rappresentazione plastica di quanto il Vaticano II insegna con la Nostra aetate. Da subito, il Papa proclamò la sua fede in Cristo e disse il rispetto per le altre credenze. La sua idea era che, da quel momento, dovesse partire un movimento per coinvolgere i credenti delle varie religioni: «quell’evento — ha scritto all’Incontro internazionale di preghiera per la pace di Lisbona nel 2000 — non poteva rimanere isolato. Aveva, infatti, una forza spirituale dirompente: era come una sorgente da cui cominciavano a scaturire nuove energie di pace. Per questo ho auspicato che lo “spirito di Assisi” non si estinguesse, ma potesse espandersi per il mondo». Il Papa era convinto che tale spirito dovesse vivere nel quotidiano, come raccomandò per il sinodo libanese; ma pensava che ci fosse bisogno anche di momenti simbolici. Che un movimento dello spirito dovesse sorgere, lo si sente nella parole di commiato ad Assisi: «La pace attende i suoi artefici (…) La pace è un cantiere, aperto a tutti e non soltanto agli specialisti, ai sapienti e agli strateghi. La pace è una responsabilità universale».
Infatti, scaturì un rinnovato impegno dei cattolici per la pace, con attenzione alla fondamentale dimensione della preghiera e ai rapporti con i seguaci delle diverse religioni. Ne emerse anche un concreto impegno per spegnere il fuoco della guerra in varie parti del mondo. È cresciuta, in venticinque anni, la consapevolezza che i cristiani hanno una «forza di pace» e non sono condannati alla passività o alla protesta verbale. Ricordo che, alla giornata di Assisi, si seppe della morte del presidente del Mozambico in un incidente e, in quel quadro, si avviò la mediazione tra belligeranti che avrebbe condotto alla pace nel Paese — dopo un milione di morti. Un senso spirituale del valore della pace conduceva a un’operosità concreta — non declamatoria — per vivere in pace tra diversi e per lenire tensioni e violenze. Sarebbe da scrivere una storia dell’impegno dei cristiani e della Chiesa per la pace tra gli anni Ottanta e la fine del secolo.
La locuzione «spirito di Assisi» ha avuto interpretazioni talvolta incerte o erronee; ma nel suo corretto significato illumina l’impegno della Chiesa nel servizio all’unità delle genti, che è anche comprensione e dialogo tra popoli credenti. Quando si parla di religioni, infatti, non si deve pensare a realtà uguali né da un punto di vista teologico, né sociologico e organizzativo. Esistono i popoli credenti, impregnati di tradizioni religiose che fanno riferimento a figure istituzionali o carismatiche. Un atteggiamento pacifico tra «religioni» vuol dire pace tra popoli credenti: espelle la violenza dai rapporti mutui, fa prendere coscienza che le reali diversità non fondano odio o disprezzo.
Il movimento iniziato ad Assisi è continuato. Il mondo francescano, in tanti Paesi, se ne è fatto carico. La Comunità di Sant’Egidio organizza incontri annuali tra leader religiosi in differenti città del mondo nello spirito del 1986: da Roma a Varsavia nel 1989 (con un pellegrinaggio ad Auschwitz, a cui parteciparono i musulmani) a Malta, Gerusalemme, Lione, Bucarest (evento che aprì al viaggio di Giovanni Paolo II in quel Paese, come ha dichiarato il patriarca Daniel), fino a Cipro o altrove. In una delle sue lettere a questi incontri — per Palermo 2002 — il Papa scrisse che il 1986 «segnò l’inizio di un nuovo modo di incontrarsi tra credenti di diverse religioni: non nella vicendevole contrapposizione e meno ancora nel mutuo disprezzo, ma nella ricerca di un costruttivo dialogo in cui, senza indulgere al relativismo né al sincretismo, ciascuno si apra agli altri con stima, essendo tutti consapevoli che Dio è la fonte della pace». Così Giovanni Paolo II concluse: «Da allora, quasi prolungando lo “spirito di Assisi”, si è continuato ad organizzare queste riunioni di preghiera e di comune riflessione e ringrazio la Comunità di Sant’Egidio per il coraggio e l’audacia con cui ha ripreso lo “spirito di Assisi” che di anno in anno ha fatto sentire la sua forza in diverse città del mondo».
Al cammino di Assisi si sono aggiunti vari leader religiosi e, specie dagli anni Novanta, parecchi non credenti: faccio l’esempio tra i molti del presidente portoghese Soares o di Jean Daniel, sensibili al tema della pace e del suo fondamento spirituale. Progressivamente l’incontro tra religioni e culture ha preso corpo, ruotando attorno alla giornata di preghiera e di silenzio, con un colloquio in cui ci si confrontasse in modo amichevole e ragionevole. Così l’evento di Assisi del 1986 è divenuto una manifestazione — non quotidiana ma «straordinaria» — di pace tra popoli credenti, ripetuta con cadenza annuale, sollecitatrice di comprensione a livello locale e nel quotidiano. Ha alimentato una reale amicizia tra credenti di varie religioni e tra questi e i laici. Infatti il «dialogo» non ha solo una portata intellettuale, ma suscita amicizia, fatto rilevante tra mondi e persone che si ignorano o sono tentati dalla contrapposizione.
Giovanni Paolo II ha vissuto l’incontro con i seguaci delle diverse religioni nei suoi viaggi apostolici: «tutti i viaggi sono un po’ la continuazione di Assisi. E Assisi è già un fatto possiamo dire irreversibile (…) E si deve dire che Assisi era frutto di tanti viaggi», dichiarò di ritorno dall’Asia. Nel 1994, con il conflitto nei Balcani, il Papa è tornato ad Assisi con ebrei e musulmani — mancavano gli ortodossi — per pregare per la pace. Cinque anni dopo, ha guidato in piazza San Pietro un’assemblea di leader religiosi alla vigilia del grande giubileo: «Il compito che dovremmo affrontare — disse — sarà quello di promuovere una cultura del dialogo. Da soli e tutti insieme, dobbiamo dimostrare che la fede religiosa ispira la pace».
Dopo il terribile attentato alle Torri Gemelle, nel 2002, l’idea di Assisi è sembrata a molti anacronistica o ingenua. Non era in corso uno scontro di religione e di civiltà? Papa Wojty?a, con un gesto solenne — dopo aver chiesto ai cattolici di digiunare l’ultimo giorno del Ramadan — volle di nuovo la preghiera ad Assisi. Si apriva un decennio di grande tensione, mentre — di fronte alla cieca violenza terroristica — l’accostamento benevolo tra religioni sarebbe stato tacciato di ingenuità. Osama bin Laden, in uno dei suoi proclami aggressivi, ha dichiarato: «loro vogliono il dialogo, noi la morte». Spesso si è affermato un atteggiamento liquidatorio verso il colloquio tra mondi religiosi.
Conviene sottolineare la via tracciata da Benedetto XVI con i suoi incontri dalla moschea blu di Istanbul alla sinagoga di Roma, che, in ottobre 2011, giungerà ad Assisi. Parlando a Napoli, nel 2007, all’incontro dei leader religiosi promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, il Papa ha affermato: «tutti siamo chiamati a lavorare per la pace e ad un impegno fattivo per promuovere la riconciliazione tra i popoli. È questo l’autentico “spirito di Assisi”, che si oppone ad ogni forma di violenza e all’abuso della religione quale pretesto per la violenza». La logica dello scontro non è il futuro dell’umanità. Ma bisogna orientare cuori e menti non allo scontro di civiltà, ma alla civiltà del vivere insieme: ciò richiede il coinvolgimento delle energie spirituali. Il Papa concludeva a Napoli: «Di fronte a un mondo lacerato dalla violenza, dove talvolta si giustifica la violenza in nome di Dio, è importante ribadire che mai le religioni possono divenire veicoli di odio (…) Al contrario, le religioni possono e devono offrire preziose risorse per costruire un’umanità pacifica, perché parlano di pace al cuore dell’uomo». Sarà la sfida di Assisi nel 2011, ma è anche quella del vivere insieme in pace tra genti di tradizione e identità differente. Nei crocevia difficili della storia, la Chiesa cattolica, mentre testimonia la sua fede in Gesù Cristo, unico Salvatore dell’umanità, serve l’unità delle nazioni, sperando di suscitare il senso della santità della pace e della vita umana nell’animo dei seguaci di tutte le religioni.