Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno
Mediazione e realismo, puntando a una vera politica estera europea: così il fondatore della Comunità di Sant’Egidio
«Sono molto preoccupato. È l’ora dei muri e delle armi, sembra che oggi tutti i fili vengano tagliati. Il popolo ucraino sta subendo un’aggressione e noi dobbiamo fare il possibile affinché non si combatta, perché i bambini e le famiglie vengano risparmiati. Kiev non deve diventare un’altra Aleppo o una nuova Sarajevo».
Non nasconde lo sgomento ed è limpida e forte la voce di Andrea Riccardi, 72 anni, storico del mondo contemporaneo e del cristianesimo (è stato in cattedra anche Bari nei primi anni ‘80, molti suoi libri sono editi da Laterza), già ministro per la Cooperazione Internazionale. La Comunità di Sant’Egidio, il movimento di ispirazione cattolica che lo studioso ha fondato nel 1968, è impegnata fattivamente ancora una volta in favore della pace e del dialogo fra le parti. Del resto Riccardi ha rivestito con coraggio il ruolo di mediatore in diversi conflitti del recente passato, dal Mozambico al Guatemala, alla Costa d’Avorio.
Professor Riccardi, l’appello che lei e la Comunità di Sant’Egidio avete lanciato per «Kiev città aperta» continua a raccogliere adesioni. È rivolto al presidente russo Putin e al presidente ucraino Zelensky, attraverso le rispettive ambasciate. Qual è il senso e quale la speranza di tale appello?
«Kiev non è solo la capitale dell’Ucraina, perché contiene un messaggio più largo di quello politico nazionale. Kiev è la città del battesimo della Rus’, la conversione al Cristianesimo di russi, ucraini, bielorussi, è la città sacra dove è nata l’Ortodossia russa, è un patrimonio dell’umanità. Non si può pensare alla cultura europea senza il Monastero delle Grotte di Kiev sulla collina che sovrasta il fiume Dnepr, un luogo millenario di pellegrinaggio e di preghiera. O senza la cattedrale di Santa Sofia che fu distrutta dai nazisti. Kiev è un simbolo che tocca il cuore di molti popoli e che oggi è sotto attacco. Bisogna fermare i combattimenti e soccorrere la popolazione civile inerme, terrorizzata, rintanata nei rifugi sotterranei, tre milioni di abitanti».
Che cosa possiamo fare?
«Ci sentiamo profondamente impotenti e pensiamo che la parola sia alle armi e la soluzione nelle mani di pochi. In realtà non è così. Siamo tutti collegati. Pensiamo al legame forte che la Puglia ha con la Russia: milioni di persone nel 2017 si sono messe in fila a Mosca e poi a San Pietroburgo per venerare un frammento delle reliquie di San Nicola, proveniente dalla Basilica di Bari. Dal Mediterraneo ai Balcani, fino alla Russia, un filo culturale e comunitario salda Occidente e Oriente. “Il mare unisce, i monti dividono”, ha scritto il grande storico Fernand Braudel. Possiamo e dobbiamo interessarci a quel che accade, partecipare, essere solidali, tenere lo sguardo rivolto verso Est».
L’Unione europea a suo avviso è consapevole di questo compito epocale? Ovvero, l’Europa si sta muovendo in maniera adeguata e bastano le sanzioni in via di applicazione contro la Russia di Putin?
«Vede, quando sento parlare di riarmo della Germania, penso che piuttosto servirebbero una politica estera europea e una forza di difesa europea. Un obiettivo che non abbiamo raggiunto. Se oggi ci fosse un esercito europeo tutto sarebbe diverso: non il riarmo tedesco, ma un’Europa forte e capace di mettere in campo una sua politica, ecco cosa davvero potrebbe aiutare».
E l’Italia? Come ci stiamo comportando?
«È necessario che l’Italia abbia un suo ruolo per la storica amicizia che nutre verso l’Ucraina. L’invito è alla mediazione, ma anche alla fermezza: le due cose non sono in contraddizione, perché c’è necessità della politica. Bisogna battersi in favore di un negoziato vissuto da entrambe le parti con giustizia e con realismo. Questo non significa ch’io giustifichi alcunché, ma per il bene dell’Ucraina bisogna favorire l’incontro e la negoziazione tra i belligeranti».
La guerra, sebbene di fatto in corso da anni, è arrivata inattesa nella nostra opinione pubblica. Uno choc che rischia di stemperarsi presto nella indifferenza o nell’ignavia. Le bombe, la minaccia nucleare, le vittime ci lasciano sgomenti eppure siamo impreparati a una reazione, nonostante il moltiplicarsi delle manifestazioni pacifiste degli ultimi giorni.
«Guardi, quando quarant’anni fa insegnavo all’Università di Bari, la Puglia e l’Albania sembravano lontanissime fra loro, mentre oggi sono vicinissime. Né mai avremmo pensato allora, prima della caduta del Muro di Berlino, di vedere russi e ucraini giungere in pellegrinaggio a Bari per pregare nella cripta della Basilica di San Nicola. Quella attuale è una guerra strana: viviamo in un mondo globale, interconnesso, pieno di legami economici e basti pensare alle forniture del gas, ma non siamo riusciti a radicare una struttura di convivenza».
Sta dicendo che l’ONU non è all’altezza di tale complessità?
«Io difendo sempre le Nazioni Unite, sempre, ma certo un loro maggiore protagonismo sarebbe necessario».
Quali azioni dobbiamo intraprendere?
«Le sanzioni servono a rendere responsabili chi le subisce rispetto alle decisioni politiche e militari, ma soprattutto dobbiamo far sentire che noi europei non siamo distratti. Guadagnare sensibilità, ecco cosa fare. Rispetto al dramma dei profughi, che potrebbero essere centinaia di migliaia, la Comunità di Sant’Egidio ha lanciato una raccolta di offerte. Ebbene, da Bari e da Brindisi in particolare sono giunti sia notevoli aiuti in denaro sia non poche offerte di ospitalità per i profughi ucraini. Il dato mi ha fatto molto pensare alla sensibilità dei pugliesi su queste tematiche».
Professor Riccardi, ha mantenuto rapporti con Bari dopo il suo trasferimento a Roma?
«Certo. Fra tutti vorrei ricordare la stima e l’amicizia che mi legavano a Franco Cassano, un intellettuale raro per rigore e visione, un non credente che aveva una forte religiosità, un costruttore di pace. Tornerò a Bari in maggio per il convegno che l’Università sta organizzando in suo onore a un anno dalla scomparsa».