di Aldo Cazzullo

27/11/2022 «I miei sei Pontefici, dai silenzi di Pio XII all’urlo di Wojtyla»

di Andrea Riccardi

Fonte: Corriere della Sera

Dai silenzi operosi di Pio XII sugli ebrei all’urlo di rabbia di Wojtyla: Andrea Riccardi racconta al «Corriere» i Papi della sua vita.

Andrea Riccardi, lei è del 1950. Se lo ricorda Pio XII?
«E il mio primo ricordo pubblico. Mia nonna mi raccontava di lui, della tempesta che aveva attraversato. Morì che avevo otto anni, e parve la fine di un mondo».
Il suo nuovo libro «La guerra del silenzio» si apre con l’incontro tra papa Pacelli e il suo futuro successore Angelo Roncalli. Vaticano, 10 ottobre 1941.
«Roncalli annotò: “Il Papa mi chiese se il suo silenzio circa il contegno del nazismo non è giudicato male”. E’ proprio Pio XII il primo a usare la parola-chiave: silenzio».
Appunto: perché tante esitazioni prima di condannare apertamente le atrocità dei nazisti?
«Innanzitutto bisogna capire due cose. Il Vaticano era molto diverso da oggi: nella diplomazia contava poco, il Pontefice non era un personaggio mediatico internazionale. E Pacelli era una persona molto diversa da come pensiamo che fosse».
Com’era in realtà?
«Mite, cortese, timido, insicuro. Aveva un tratto ieratico, mitigato dalla bonomia romana: poliglotta, parlava tutte le lingue con un lieve accento della sua città. Ed era indeciso. C’è una storia che non si trova negli archivi…».
Chi gliel’ha raccontata?
«li cardinale Traglia, che era vicegerente di Roma. Alla vigilia del Natale 1943, í tedeschi e la banda Koch violarono il Seminario lombardo, che era pieno di ebrei, militari, antifascisti nascosti. Molti avevano avuto dai religiosi l’abito ecclesiastico. Così i fascisti li costringevano a recitare le preghiere per scoprirli e portarli nei lager. Un turpe sacrilegio».
Guardi che non è di moda dire così, bisogna contestualizzare…
«Un turpe sacrilegio».
Come finì?
«Qualche ebreo aveva imparato l’Ave Maria e il Padre Nostro, e si salvò. Altri furono presi e deportati. Il Papa si indignò, e per protesta diede ordine di non celebrare le messe natalizie di mezzanotte, che per via del coprifuoco erano fissate nel pomeriggio. Ma poi cambiò idea, e mandò Traglia ad avvertire i parroci di dire messa lo stesso…».
Perché?
«Temeva di inasprire l’occupante. Il Papa era un diplomatico, e voleva sempre tenere aperta una via di mediazione. Anche se Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, non avrebbe mai potuto organizzare la rete di protezione degli ebrei e degli antifascisti senza il consenso di Pio XII. Alcuni storici obiettano che manca l’ordine scritto. Ma sarebbe stato un grave rischio metterlo per iscritto».
Pacelli era il segretario di Stato di Pio XI. Insieme avevano preparato un’altra, dura enciclica di condanna del nazismo (dopo la Mit Brennender Sorge). Perché alla morte di Pio XI rimase nel cassetto?
«Pio XI aveva un carattere molto diverso. Imperioso. Aveva creduto che Mussolini avrebbe trasformato il fascismo in un regime cattolico. Quando capì che non era così, che il regime anzi perseguitava i giovani dell’Azione cattolica, protestò con vigore. Pio XII era più prudente. Era stato in Germania, parlava tedesco, ma con Hitler il rapporto era pessimo».
Lei scrive che nel Conclave il vero rivale di Pacelli era stato Elia Dalla Costa, che a Firenze aveva sbarrato l’arcivescovado in faccia a Hitler.
«Ma fu considerato un pastore privo di esperienza internazionale».
Il primo Paese aggredito fu la Polonia.
«E i polacchi, in particolare il governo in esilio a Londra, fecero molta pressione sul Papa: “Ma come, la Polonia semper fidelis, il baluardo cattolico contro l’Est ortodosso, viene straziata, gli ebrei vengono massacrati, e il capo della cristianità non dice una parola?”».
Appunto: perché?
«Non perché fosse antisemita. Anzi, aveva simpatia per gli ebrei, e si prodigò in silenzio per proteggerli, come si vide durante l’occupazione nazista di Romá. Ma, appunto, in silenzio. “Ad mala maiora vitanda”, per evitare guai peggiori. Anche ai cristiani».
Nel 1940 l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Dino Alfieri, fu trasferito a Berlino.
«E Pio XII, nel congedarlo, si confidò. Gli disse che aveva riletto le lettere di Santa Caterina da Siena a Gregorio XI, in cui la santa avvisava il Papa che il giudizio di Dio sarebbe stato severo con lui se non avesse reagito al male. “Sono pronto a essere deportato in un campo di concentramento, ma non a fare alcunché contro coscienza” proclamò Pio XII».
Quindi il Papa temeva di essere deportato?
«Era pronto ad affrontare il prelevamento e furono bruciati alcuni documenti. Non fu per questo che non intervenne per salvare gli ebrei razziati nel ghetto il 16 ottobre 1943».
Lei negli archivi vaticani ha trovato una lettera della principessa Enza Pignatelli, che avverte Pio XII della retata imminente.

«La principessa aveva saputo che i tedeschi avevano chiesto ai fascisti la lista degli ebrei romani. Alle 6 del mattino del 16 ottobre, avvisata da un’amica, Enza Pignatelli andò al ghetto, oltretutto su un’auto di un diplomatico tedesco, vide tutto, e si precipitò dal Papa».
Come reagì Pio XII?
«Fu sorpreso. Sapeva che i nazisti avevano chiesto cinquanta chili d’oro, si era impegnato con la comunità a fornire lui stesso dodici chili. Pensava che gli ebrei fossero al sicuro».
Ma non si mosse.
«Era stato a San Lorenzo dopo il bombardamento: un gesto storico, il Papa con la veste macchiata di sangue, i romani commossi. Avrebbe potuto non dico andare alla stazione Tiburtina a fermare i convogli, come ha scritto Rosetta Loy, ma recarsi tra gli ebrei arrestati al Collegio militare a poche centinaia di metri dal Vaticano. Non lo fece».
Perché?
«Si illuse di poterli liberare per altre vie. Si fidò dell’ambasciatore tedesco Welzsäcker, che gli fece perdere tempo. Ma poi si batté per dare asilo ai ricercati. Il governatore del Vaticano, il cardinal Canali, che aveva simpatie fasciste, protestò. Ma il Papa si schierò con Montini. Fu il tempo in cui “metà Roma nascondeva l’altra metà”. E l’azione diplomatica di Pio XII salvò altre vite, ad esempio quella di Giuliano Vassalli».
Ma il silenzio continuò.
«II Papa riteneva di non doversi schierare tra i belligeranti, perché dall’altra parte c’era l’Unione Sovietica. Citò le persecuzioni legate alla “stirpe”. Ma in sostanza il silenzio proseguì anche dopo la guerra. E qui francamente non riesco a dare una spiegazione».
La famiglia Riccardi da che parte stava?
«Mio padre dopo l’8 settembre si unì alla Resistenza antitedesca in Albania. Finì in un lager nazista vicino a Colonia. Suo fratello Tommaso era fascista. La madre, mia nonna, lo mandò nel campo nazista a riprendere l’altro figlio deportato».
Ci riuscì?
«No. Per convincerlo lo portò al ristorante, seguito dal piantone tedesco. Mio padre fu irremovibile: aveva giurato fedeltà al re, non al Duce. Il fratello lo riportò al lager; ma prima di salutarlo si tolse il cappotto e glielo lasciò. Papà lo scambiò con il cibo per passare l’inverno».
Si riconciliarono?
«Sì. Ma ogni volta riprendevano a litigare sul re e sul Duce».
Papa Giovanni lei come lo ricorda?
«Una meravigliosa sorpresa. La Curia lo scelse come Papa di transizione. Pensava di poterlo gestire: “Quel pacioccone di Roncalli” diceva Tardini: Lo vidi a San Giovanni, acclamato dalla folla: in pochi mesi aveva cancellato Pio XII, che era stato un Papa popolarissimo. Il primo a dettare messaggi alla radio, il primo ad apparire in tv in America…».
Lei era amico di monsignor Capovilla, il segretario di Roncalli.
«Che mi ha raccontato episodi rivelatori. Il nuovo Papa si insedia, madre Pascalina, la donna forte del pontificato precedente, lo accompagna a visitare l’Appartamento, e a un tratto cade in ginocchio: “Qui è dove il Santo Padre ha visto Gesù…”. E Roncalli, quasi spazientito: “Va be’, andiamo avanti”».
Poi venne Paolo VI.
«Era molto legato alla figura di Pacelli. Nel suo storico viaggio in Terrasanta lo difese presso le autorità israeliane. Tenne il punto, ricordò che Pio XII aveva salvato molti ebrei».
Lei è stato vicino a Giovanni Paolo II, di cui è anche biografo.
«Di Pacelli, Wojtyla non parlava mai. Forse non aveva accettato i silenzi sulla sua Polonia. E poi amava gli ebrei. Li considerava i parenti di Gesù. Nel testamento nomina solo due persone: Stanislao, il suo segretario che era come un figlio, e Toaff, il rabbino capo di Roma. Alcuni critici tradizionalisti sostengono che la mamma di Karol Wojtyla fosse di lontana origine ebraica…».
Lei ci crede?
«Se lo si dimostrasse, non me ne stupirei».
Come lo conobbe?
«Era il 1978, venne in visita alla Garbatella. Noi lo chiamammo dal convento di monache cappuccine, dove avevamo aperto un asilo per i figli delle ragazze madri che vivevano in strada, uno era stato morso dai topi e aveva rischiato di morire. Il Papa entrò, si sedette tra banchi, si fece fotografare con i bambini. Trovava la Chiesa di Roma un po’ spenta, ebbe simpatia per noi di Sant’Egidio. E ci invitò in Vaticano».
Com’era in privato? Si arrabbiava?
«Una volta sola l’ho sentito alzare la voce con Stanislao, che voleva convincerlo a non andare a Sarajevo: “Metterebbe in pericolo il suo seguito…”. “Andrò da solo!”. “Ma non c’è elettricità, non funzionano i microfoni…”. “Urlerò!”. Poi però ebbe parole di tenerezza: “Stanislao è con me da sempre, non avrei accettato l’elezione se non avessi avuto lui al mio fianco…”».
Come passerà alla storia Wojtyla?
«Come l’ultimo Papa uscito vincitore. Si alleò con Reagan, liberò i polacchi quasi come un Mosè che aveva liberato gli ebrei. Il primo viaggio lo fece ad Assisi. Un fedele gli gridò: viva la Chiesa del silenzio! E lui, prontissimo: “Non c’è più la Chiesa del silenzio. Ora è qui; e parla”. Un gigante. Convinto che l’Italia avesse una missione nel mondo».
Quale?
«Preservare la sede di Pietro. Conciliare la cristianità e l’umanesimo».
Lei come ha accolto le dimissioni di Ratzinger?
«Male. Quasi come un atto di freddezza. Credo che la storia debba ancora chiarirle. Parve quasi che il Papa non avesse più la forza e la volontà di fare quel che sapeva di dover fare».
A quale successore pensava Ratzinger?
«A Scola. Ma in Conclave prevalse la scelta di non puntare sugli italiani».
Francesco sta per compiere dieci anni di pontificato. Qual è il bilancio?
«Ha trovato una situazione difficilissima, una depressione generale. Il formidabile inizio fece pensare che i mali della Chiesa fossero guariti d’incanto. Non poteva essere così. Francesco ha avuto il merito di mettere i poveri al centro. Su alcune riforme, come la comunione ai risposati, è stato fermato. La Chiesa europea è in decadenza, le cattedrali sono vuote di giovani, sembra che il prete sia un mestiere che gli europei non vogliono più fare. Eppure…».
Eppure?
«Questo è in potenza il tempo della Chiesa. La Chiesa è cultura e sentimento: dona la fede alle persone e ha una visione globale. E’ la sola a dare speranze per questa vita e per la vita futura».
Che tipo è il cardinale Zuppi, il presidente dei vescovi italiani?
«Lo conosco da quando avevo 19 anni e lui 14: molto magro, molto appassionato, con il cappotto appartenuto ai suoi fratelli. Non è cambiato: sa entrare in empatia con le persone. Sa ridere. E’ un costruttore».
Cosa pensa di Giorgia Meloni?
«Ha vinto le elezioni; la giudicheremo dai fatti. Il passato ci insegna che l’Italia si governa dal centro. Allargando e coinvolgendo. E puntando sulla priorità assoluta: la scuola. Non funziona più, va ricostruita».
Dicono che lei sia indulgente con Putin.
«Sono stato in Ucraina la prima volta negli Anni ’80, quando c’era l’Unione Sovietica. Sono diventato amico dei patrioti che volevano fare di Leopoli la Torino d’Ucraina, la culla dell’indipendenza dall’impero russo. Non ho cambiato parte: sono con loro. Proprio per questo non voglio che la guerra in Ucraina diventi infinita, come, in Siria e in Libia. Serve la diplomazia».
Roma come la trova?
«Non si riesce a farla funzionare, a far trovare i taxi in stazione, a ripristinare la legalità sulle strade, a umanizzare le periferie. Capitale depressa, nazione sperduta. Servono nello stesso tempo più cura e più visione. E strumenti istituzionali nuovi: il sindaco deve contare di più, diventare una sorta di governatore di Roma».
Ogni tanto la candidano a sindaco, e pure a presidente della Repubblica…
«Se è per questo, ho letto che mi avrebbero proposto pure la presidenza della Regione… Mi è bastato fare il ministro della Cooperazione con Monti. Un premier che ha avuto molti meriti: ha raccolto un Paese sull’orlo del fallimento. Siamo tornati in Africa, dove eravamo assenti, e abbiamo dimostrato che si possono integrare i migranti senza farne un’emergenza».
Come immagina l’Aldilà?
«Finalmente una grande pace. Il Signore ci ha seguiti per tutta la vita; non ci abbandonerà proprio nel momento supremo».