Fonte: La Repubblica
«Non dobbiamo inibirci e smettere di coltivare le grandi speranze», dice Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio.
Nel dibattito pubblico il pacifismo mancava da molto, perché?
«Questa è una mia grande preoccupazione. In tante parti del mondo la situazione si va deteriorando, si è incancrenita, vedi ad esempio la guerra in Siria, e le grandi immigrazioni in corso che essa causa. Eppure non si dibatte più sulla pace, come se queste vicende fossero lontane e il tema affidato ad un ristretto club di intenditori e decisori. Questo è assurdo, specie se si pensa che siamo informati di tutto, in contatto continuo con gli altri ed esprimiamo opinioni su qualsiasi cosa; ma c’è un diffuso senso di impotenza, rassegnazione».
Il pacifismo sembra diventato argomento per “anime belle”, anche i giovani appaiono distratti, anche qui: perché?
«Da un lato c’è l’accettazione diffusa della guerra come strumento per risolvere i conflitti politici, economici ed etici. Ma parlando dei giovani, forse le generazioni precedenti li hanno schiacciati attorno ad una filosofia individualistica, fatti i fatti tuoi e cavatela da solo. E invece la pace è possibile, è una aspirazione profonda di uomini e donne».
Alla manifestazione hanno aderito associazioni e partiti, ma non tutti: perché a destra c’è refrattarietà?
«C’è chi si è sentito di farsi avanti e chi no, non saprei disegnare una geografia dei pacifisti, degli indifferenti e dei bellicisti. Mi ha sorpreso invece la valanga di interessi e di adesioni, persone che mi hanno detto “c’era bisogno che qualcuno prendesse posizione”. L’Italia non deve ridursi ad essere una periferia inutile e anche i nostri governanti hanno bisogno di sentire che hanno dietro un popolo con degli orientamenti. Non dobbiamo inibirci le grandi speranze, i grandi sogni. Negli anni ’30 don Luigi Sturzo era in esilio negli Usa e scriveva che l’umanità aveva sempre sostenuto che la schiavitù non sarebbe stata abolita. Invece in buona parte è accaduto».
A proposito di Stati Uniti, perché in genere è difficile vedere piazze contro Cina o Russia?
«In passato c’è stato un pacifismo forse ideologico, ma adesso non c’è tout court, è questo il problema».
Non ci sono due pesi e due misure nel contestare la guerra?
«No, non mi sento proprio di dirlo, il disinteresse generale è a 360 gradi, anche da parte dei partiti. La guerra è un errore sempre, peraltro le guerre cominciano per durare una settimana e poi durano anni. Come diceva Giovanni Paolo II, è una avventura senza ritorno. Eppure in un mondo così interconnesso, pensiamo ad esempio a quanto conta per noi il gas russo, il conflitto armato deve divenire sempre più impossibile, il trauma bellico è puro non sense».
Quanto influisce l’industria bellica in queste dinamiche?
«Sono stato sempre molto prudente nell’attribuire la responsabilità della guerra solo al problema dell’industria, ma mi colpisce molto l’insistenza di Papa Francesco sulla questione. Il rischio è che le armi producano la volontà di guerra e non il contrario, è un vasto mercato al di là della volontà degli Stati».
A parte manifestare, come si può fare opera di pacifismo?
«Facendo sentire la pressione di opinioni e sentimenti. Ecco, in piazza servono quelli: i sentimenti».