Fonte: Famiglia Cristiana
La brutale uccisione di monsignor Luigi Padovese, il 3 giugno, ci interroga. Questa morte non può cadere nel silenzio.
Dice qualcosa di importante ai cristiani italiani e alla Turchia stessa. Eppure, oggi tra noi (in parte anche tra cristiani) si ha imbarazzo verso queste testimonianze segnate dal sangue. Sembrano storie eccessive in un mondo prudente e avaro come il nostro, in cui tutto è relativo e niente è decisivo, se non preservare la propria vita. Il martirio avviene in contesti storici, gravidi di passioni, di oscurità e di odio. Non in asettici laboratori.
I cristiani si muovono in un mondo complicato. Lo sappiamo in Occidente, dove siamo timidi e intimiditi. Tanto più è dura la vita cristiana in Turchia. La morte di monsignor Padovese ha un messaggio: il cristianesimo è una cosa seria e grande, vissuta da gente comune come noi. Padovese era uno di noi. Si chiedeva padre Turoldo: perché siamo ancora così mediocri, quando siamo stati vicini ai martiri? La domanda vale per i cristiani italiani del Duemila, un secolo che sta diventando un tempo di martiri.
Monsignor Padovese era un francescano che al gratificante insegnamento universitario ha preferito essere vescovo di pochi cristiani dispersi. In Turchia, i cristiani (circa un terzo della popolazione all'inizio del Novecento) sono rimasti in pochi, più o meno 120 mila, lo 0,2% dei 70 milioni di turchi. Ho visitato qualche città nella Turchia profonda: antiche chiese, poche persone, grandi distanze che separano una comunità dall'altra. Padovese aveva il compito oneroso di animare queste comunità sparse su un grandissimo territorio, fino a Trebisonda, dove fu ucciso don Andrea Santoro nel 2005. Di lui, il vescovo ucciso ha detto: «Non è stata uccisa soltanto la persona, ma si è voluto colpire il simbolo che la persona rappresentava…».
Il prete e il cristiano sono un simbolo che inquieta, pur essendo pochi. Perché? C'è qualcosa di profondo in vari strati della società turca. Non voglio strumentalizzare gli assassinii per attaccare la Turchia o l'islam. Si parla di pista islamica nel caso Padovese. È possibile. Forse dietro alla violenza c'è anche la "cultura" ipernazionalista (a cui apparteneva Ali Agca, attentatore di Giovanni Paolo Il).
Chi ha ucciso Hrant Dink, giornalista armeno che chiedeva diritti per i suoi, ma proponeva la necessaria riconciliazione tra turchi e armeni? C'è un anticristianesimo non guarito, misto di nazionalismo, di eredità del kemalismo, di odi antichi e di religione.
La Turchia di Erdogan, che si vorrebbe liberare del kemalismo per dar spazio alla religione, vive ancora (in parte) un'antipatia per la figura del cristiano. C'è un lavoro culturale ed educativo profondo da fare. Non si tratta solo di misure di polizia o di un caso da chiudere, ma si deve fondare la sicurezza e la libertà su una pacificazione profonda con gli altri, popoli o religioni che siano.