17/04/2022 Bucha, il tragico fallimento di un mondo malato di guerra

di Andrea Riccardi

Fonte: Famiglia Cristiana

Siria, Yemen, Etiopia, Mozambico, Mali, Burkina Faso: in tutti i conflitti i soldati si disumanizzano e i civili pagano con il sangue. L’editoriale di Andrea Riccardi

L’uccisione dei civili a Bucha, Irpin e Borodyanka da parte dell’esercito russo e le violenze sulla popolazione svelano un altro aspetto barbaro della guerra in Ucraina. Questa purtroppo è la guerra. I soldati si disumanizzano. 

La popolazione paga un prezzo altissimo: a Mariupol e a Karciuk. Ovunque morti, rovine,
bombardamenti, strutture sanitarie distrutte, bambini terrorizzati… Ci chiediamo quanto durerà. Il ponte sottile dei negoziati di Istanbul, su cui tanto speravamo, sembra sempre più assottigliarsi. Restano altri due scenari possibili: la guerra totale che coinvolge, come i russi hanno minacciato, l’arma nucleare in caso sia toccato il territorio russo (e sarebbe veramente l’apocalisse); oppure, più probabilmente, una lotta senza fine sul territorio ucraino tra le truppe di Mosca e quelle di Kyiv. 

Un simile scenario non è una novità. Forse siamo troppo concentrati sulla guerra in Ucraina da dimenticarci di altre situazioni. In Siria, la guerra, dove, accanto a tanti Paesi, i russi sono impegnati in sostegno di Assad, dura da undici anni. La popolazione, al 60%, è alla fame. Sono morti 12 mila bambini. Una generazione cresce nella guerra, spesso senza scuola. I vaccinati per il Covid sono al 2%. Più di 13 milioni sono fuggiti dalla Siria o sfollati dentro il Paese. C’è un’altra Siria fuori dal Paese: in Turchia 3,7 milioni di profughi; 1,5 nel Libano in crisi profonda; in Giordania 1,3 milioni. Per la Siria non si parla più di pace. La guerra cronicizzata sembra accettata passivamente dalla comunità internazionale e dallo stesso Governo di Assad. Intanto muoiono, per il conflitto, circa duemila persone ogni anno. 

Nessuno vince e nessuno perde: il popolo muore e i Paesi si sfaldano. Così la Siria. Ma sta avvenendo anche nel più antico Stato indipendente dell’Africa, l’Etiopia. La regione del Tigrai è isolata e in crisi umanitaria (qui sono stati scoperti massacri e pulizie etniche), mentre gli eritrei, gli afar e gli amhara sono in perenne tensione con i tigrini. Il Governo di Addis Abeba, combattuto anche dagli Oromo, tenta un’ardua ricostruzione nazionale. E Addis Abeba è la sede dell’Organizzazione per l’unità africana. Del resto in Africa si moltiplicano i conflitti dovuti alle guerriglie jihadiste: nel Nord del Mozambico (800 mila rifugiati), in Mali, in Burkina Faso (dove è stata rapita una religiosa nordamericana di 84 anni).

Ricordare i conflitti “dimenticati” (e ce ne sarebbero altri, come lo Yemen per esempio) non vuol dire ridimensionare il dramma ucraino, ma segnalare come il mondo sia tanto ammalato di guerra. Si dimentica il dramma afghano di fronte a cui ci siamo commossi (e con cui ci siamo impegnati) nell`estate 2021. C’è bisogno di uno sguardo globale. Tale sguardo deve venire dalla comunità internazionale e dall’Onu. Il mondo ha bisogno di un’organizzazione che incarni l’esistenza del bene comune mondiale, che si sostanzia soprattutto nella pace. 

Così suonano come severo ammonimento le parole di papa Francesco sull’Onu: «Con la guerra in Ucraina, assistiamo all’impotenza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite». E ha aggiunto: «La logica dominante è ormai quella delle strategie degli Stati più potenti per affermare i propri interessi estendendo l’area di influenza economica, ideologica e militare». Eppure, questo mondo globale ha bisogno di un’istituzione che concili la politica dei singoli Stati con la realtà del destino comune, radicata nell’interconnessione crescente tra Paesi. 

La pandemia l’ha mostrato: siamo tutti sulla stessa barca.

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