09/10/2015 Gli equivoci su Francesco e la teologia che non divide

di Andrea Riccardi

Fonte: Corriere della Sera

Il Papa non procede per ondeggiamenti casuali, ha un dialogo diretto con la comunità internazionale e una visione con cui tutti i vescovi del Sinodo sono chiamati a misurarsi La confessione di monsignor Charamsa è un particolare di vita di palazzo che non può innescare una crisi di governo

Quali scenari oggi nel governo vaticano? Vari osservatori notano confusione. Il coming out di mons. Charamsa dell’ex Sant’Offizio e la severa risposta del portavoce vaticano, l’incontro con l’ex discepolo gay del Papa nella nunziatura di Washington e infine quello – sempre lì – con l’icona antigay, Kim Folley, mostrerebbero un andamento contrastante. Caso o incerta impostazione? Voci autorevoli della Chiesa insistono sul «fraintendimento» e la strumentalizzazione, cui andrebbero soggetti gli interventi e i gesti di Francesco. Il che costituisce anche una garbata rilevazione dei limiti originari del suo pensiero, forse per asistematicità o – come dicono taluni più severi – per «teologia debole». Si riproporrebbe un quadro confuso di governo, come negli ultimi tempi di Benedetto XVI, proprio alla vigilia di un Sinodo, in cui si tratta del delicato tema della famiglia.

I fatti accaduti sono in realtà particolari di vita di palazzo, più che una crisi di governo. Il caso Charamsa (il prete era stato proposto – sembra – come sottosegretario dell’ex Sant’Offizio proprio dalla congregazione, ma non voluto dal Papa) impallidisce in confronto alle crisi nei ranghi della Chiesa nei decenni scorsi. Al tempo di Paolo VI, si ripetevano gli abbandoni di sacerdoti e religiosi, finanche vescovi, sino alla rottura di Lefebvre. Persino con Wojtyla non furono tempi facili e lo scisma si consolidò. Del resto, Francesco, a differenza di Montini (che volle presto i «montiniani» ai vertici curiali) non ha fatto grandi cambi di quadri vaticani, tenendo quelli ereditati dai predecessori, non sempre sintonici con lui.
Il Papa non procede con ondeggiamenti casuali. Ha una visione. Ha molta autorità tra il «popolo» e nella comunità internazionale. Lo si è notato a Cuba e negli Stati Uniti, dove è stato accolto come un leader mondiale, anche grazie alla mediazione tra i due Paesi, molto elogiato da Castro e Obama (presidente fino a ieri osteggiato dai vescovi americani). Alla tribuna del congresso americano e dell’Onu, ha parlato da riconosciuto leader spirituale, oggetto di forte attenzione pure quando le sue idee non facevano l’unanimità. Il messaggio papale non perde forza per qualche saluto in nunziatura: la vicenda ricorda i piccoli inciampi di vari viaggi papali. Il discorso del Papa non è solo rivolto all’esterno, ma radicato in una chiara visione della Chiesa.

Lo si vede nel confronto con la Chiesa americana. Questa, in una società così pluralista, ha avuto un ruolo di minoranza attiva in difesa dei «valori non negoziabili», pure con battaglie culturali aspre. Il suo è stato un modello sviluppatosi negli ultimi anni di Wojtyla e in quelli di Benedetto XVI. Ma il Papa non ha fatto ai vescovi Usa un controcanto liberal, come taluni attendevano. Ha disegnato una nuova stagione: «Il linguaggio aspro e bellicoso della divisione – ha detto – non si addice alle labbra del Pastore… e, benché sembri per un momento assicurare un’apparente egemonia, solo il fascino durevole della bontà e dell’amore resta veramente convincente». Egemonia o fascino convincente dell’amore? L’alternativa alle battaglie culturali non è l’adattamento liberale, ma l’attrazione «missionaria». Così pensa Francesco che ha visto la crisi del modello di minoranza combattiva dai confini chiari. Una logica che, pastoralmente, tagliava ponti, isolava la Chiesa scarica di capacità attrattiva, sospinta in un ridotto che la rendeva «antipatica» («simpatia» è parola chiave del discorso di Paolo VI alla chiusura del Vaticano II, citato nella bolla d’indizione del Giubileo).

Ieri il Papa all’Angelus, dopo l’apertura del Sinodo, ha insistito: non «società-fortezza, ma società-famiglia, capaci di accogliere, con regole adeguate, ma accogliere, accogliere sempre, con amore». Si riferisce ai rifugiati o alla famiglia? Rivolge a tutti l’invito a entrare in un processo di apertura. Non sembra turbato dei casi di palazzo o del Vaticano. Non vive isolato. Né rinuncia a un rapporto con il popolo: ne sente la simpatia e il sostegno. I vescovi sono chiamati a misurarsi con la sua visione. Chiudendo la scorsa sessione del Sinodo, tra l’altro, ha ricordato che lui è il successore di Pietro, garanzia di tranquillità per tutti.