Fonte: Corriere della Sera
Benedetto XVI si reca oggi alla sinagoga di Roma. Da giorni fioccano polemiche. C’è però qualcosa di profondo da cogliere nell’evento, che non è un incontro di routine, ma ha un valore storico. Il monumentale tempio sul Tevere, da più di cent’anni, rappresenta l’emancipazione degli ebrei da secoli di umiliazione del ghetto, istituito nel 1555 da Paolo IV. La visita di papa Ratzinger avviene in un giorno di memoria: il 17 gennaio 1793, il popolino romano voleva bruciare il ghetto, convinto che gli ebrei sostenessero i rivoluzionari francesi. Le fiamme erano alte, quando un acquazzone spense le furie dei romani e il fuoco. Sembrò un miracolo. I tempi dell’umiliazione sono stati lunghi per gli ebrei romani. Più vicine sono altre memorie, come la razzia degli ebrei di Roma da parte dei nazisti, il 16 ottobre 1943.
Benedetto XVI inizia la visita dal luogo dove stazionarono i camion tedeschi per deportare gli ebrei in quel sabato nero. Qualche anziano ricorda il volto dei bambini, che non sono più tornati. Furono 1.021 i deportati, di cui solo 17 scampati. Il Papa inizia la visita fermandosi a deporre i fiori di fronte alla lapide che, nel quartiere ebraico, ricorda coloro che non sono tornati. Dal grande dolore della Shoah, sono cominciati nuovi rapporti tra ebrei e cristiani. A Roma avvenne qualcosa di inedito: gli ebrei, nascosti in chiese e conventi, hanno convissuto con suore e religiosi, condividendo paure e speranze. Un ebreo fotografò quella strana vita comune: «I bambini scorrazzavano negli interminabili corridoi, portando rivoluzione nelle abitudini delle suore che erano abituate al massimo silenzio».
La rivoluzione avvenne soprattutto nella coscienza cristiana. Le amicizie ebraico-cristiane (in Francia con il filosofo cattolico Jacques Maritain e l’ebreo Jules Isaac, in Italia con Giorgio La Pira) portarono all’incontro di Seelisberg del 1947. Le ferite erano aperte. Bisognava cambiare in profondità. L’antisemitismo non doveva trovare nessuna giustificazione nell’antigiudaismo cristiano. Da Seelisberg, tra ebrei e cristiani, scaturirono dieci punti programmatici: dall’affermazione che «il Dio vivente che parla a tutti noi nell’Antico come nel Nuovo Testamento», alla conclusione che bisogna spazzar via ogni motivo di ostilità verso gli ebrei (ad esempio evitando di imputare loro la morte di Gesù). Era un tempo di pionieri e di sogni. Oggi i sogni sono divenuti realtà.
Ma l’antisemitismo non è finito. Un cippo fuori dalla sinagoga commemora Stefano Tachè, un bambino ebreo di due anni ucciso, e 40 ebrei feriti nel 1982, all’uscita dalla preghiera: parla di odio verso Israele. Anche lì Benedetto XVI sosterà. Ricorderà l’antisemitismo terrorista, ma anche quello ancora vivo. Negli anni Ottanta, la comunità ebraica soffrì il «vento dell’odio», come racconta l’anziano rabbino Toaff. Anche chi scrive rammenta quel brutto clima e le manifestazioni ostili davanti alla sinagoga. Oggi quel mondo è lontano, ma non finito. Benedetto XVI viene a dire agli ebrei, che non resteranno più soli. La deplorazione dell’antisemitismo è scritta nel Concilio. Ma significativamente il Papa viene a manifestare agli ebrei la fedele amicizia sua e della Chiesa cattolica.
Entrando nel tempio, il Papa, accompagnato dal rabbino Di Segni, troverà di fronte a sé l’Aron, l’armadio dove si custodiscono i libri della Torah, cuore della casa di preghiera. Sul timpano dell’Aron sta scritto in ebraico: «Sappi di fronte a chi stai». Il Papa e il rabbino, cattolici ed ebrei, appartengono a mondi religiosi differenti, da non confondere in un impeto di irenismo. Ma sono mondi da non separare. Un patrimonio spirituale li unisce in radice. Il Papa e il rabbino sanno di fronte a chi stanno: lo stesso Dio. Forse la bellezza e la forza dell’incontro di oggi spegnerà polemiche e reciproche diffidenze, come quel lontano acquazzone spense il fuoco del ghetto nel 1793.