Fonte: Corriere della Sera
La riforma del Papa. Dopo un lavoro durato nove anni, varata la riorganizzazione della Curia Romana. Previsto anche un forte inserimento di laici per immettere nuove competenze
Una delle questioni più spinose, per papa Francesco che compie nove anni di pontificato, è l’amministrazione vaticana. Prima del conclave del 2013, in cui fu eletto, i cardinali criticarono la Curia, specie la gestione del Segretario di Stato. Bergoglio ha sentito il «mandato» di riformarla.
Il primo passo è stato creare un consiglio di cardinali per quest’opera e per discutere i problemi della Chiesa. Già una riforma: quasi un sinodo permanente, endemousa – si dice nelle Chiese orientali- per accompagnare il primate nel governo. E’ stato invece il luogo dove elaborare la Costituzione sulla Curia, Praedicate Evangelium, pubblicata l’altro ieri.
Ci sono voluti nove anni (la riforma di Paolo VI, gestita da lui e da tecnici, impiegò due anni). Francesco ha ricordato la battuta di monsignor de Mérode, ministro delle armi di Pio IX e grande immobiliarista: «Fare le riforme a Roma è come pulire la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti». La Curia è la più antica istituzione europea, che affonda le radici nel governo papale ben prima del mille. Nel 1588 Sisto V la riorganizzò. Nel Novecento ci sono state ben tre riforme: nel 1908 con Pio X, con Paolo VI nel 1967 dopo il Concilio e, infine, con Giovanni Paolo II nel 1988.
Francesco si è trovato a fare i conti con una Curia piuttosto stanca, quale si era profilata negli ultimi anni di Wojtyla, ma anche con l’esaurimento di una vivace classe dirigente emersa tra Concilio e post Concilio, che contava personalità come il cardinale Etchegaray, attore umanitario sulle frontiere del mondo o grandi diplomatici come Casaroli e Silvestrini.
Il problema non è solo la riforma delle istituzioni, ma anche della classe dirigente, questione comune ai ceti politici di oggi, ma in particolare per gli ecclesiastici, in un tempo in cui il mondo religioso si va «deculturalizzando». Cultura non è qualcosa di libresco, ma senso del mondo e della storia. Francesco spinge la Chiesa a «uscire», il che significa confronto con la realtà: qui la sua polemica contro il clericalismo.
A Buenos Aires, echeggiando Wojtyla, insisteva sul «creare cultura»: «Una fede che non si fa cultura non è una vera fede». La cultura è un alfabeto necessario quando ci si misura con una realtà globale e differenziata,
nuova nel lessico curiale. Peraltro la limitazione del mandato a cinque anni (rinnovabile) per gli ecclesiastici non favorisce l’accumulo d’esperienza frutto delle «carriere» nelle istituzioni. Si pensi al cardinale Casaroli, entrato in Segreteria come archivista nel 1940 e uscito, da Segretario di Stato, cinquant’anni dopo, nel 1990, senza mai un incarico fuori Roma. Eppure, è stato una personalità dall’esperienza preziosa.
D’altra parte si capisce la volontà della riforma di evitare un ceto curiale chiuso. Non è la Curia di Paolo VI, in cui l’antico prosegretario Montini attribuiva alla Segreteria di Stato una funzione-guida, quasi una presidenza del Consiglio. Mentre la riunione dei capidicastero profilava un Consiglio dei ministri (poi inattuato). Era un modello simile al presidenzialismo francese.
La riforma inaugura una Curia più leggera, marcata dall’«indole vicaria» rispetto al Papa, ai vescovi diocesani e alle loro conferenze. Si avverte: «La Curia romana non si colloca tra il Papa e i vescovi, piuttosto si pone al servizio di entrambi…». Alle istituzioni, si affianca la spinta alla «convergenza» nella trasversalità e nel dibattito interno per «un funzionamento disciplinato e efficace». Nuova è la creazione di un dicastero per il servizio della carità, che rappresenta l’iniziativa del Papa verso i poveri nel mondo, espressivo del superamento d’un impegno troppo istituzionalizzato negli organismi cattolici. Resta un problema. La Curia Romana non è un’organizzazione sul tipo dell’Onu. L’internazionalità s’interseca con la romanità. Quale rapporto con la Chiesa di Roma?
Si raccomanda ai chierici di occuparsi della «cura d’anime», una tradizione dei curiali (il cardinale Parolin segue Villa Nazaret). Ma c’è un’osmosi da ricreare tra la Curia e Roma, che durante il Novecento s’è in parte dissolta, perché la Curia abbia un carattere «pastorale» e ritrovi il suo radicamento in una Chiesa, che la fa romana.