23/10/2019 L’integrazione è una garanzia per gli italiani e i non italiani

di Andrea Riccardi

Fonte: Corriere della Sera

La condizione fondamentale per la cittadinanza non è il luogo di nascita, ma il ciclo di studi o un corso professionale, condividendo comuni aspirazioni di futuro.

La scorsa legislatura si è persa un’occasione: risolvere il problema dei bambini, figli di stranieri, cresciuti in Italia ma senza cittadinanza italiana. Una svista grave di due governi dalla forte presenza del Pd, tanto da far pensare che sia stata voluta. Eppure una proposta c’era, approvata alla Camera e giacente al Senato fino alla fine della XVII legislatura. Non è mai stata calendarizzata, lasciando il campo a un dibattito mal impostato e gridato. Sono stati gli avversari a dare il nome di ius soli al provvedimento per la cittadinanza, considerandolo un’apertura indiscriminata agli stranieri. Lo ius soli è l’acquisizione della cittadinanza da parte dei nati sul territorio dello Stato anche da genitori stranieri. Come negli Stati Uniti, dove la Costituzione concede la cittadinanza ai nati in terra americana.

In realtà, la proposta di legge prevedeva tre fattispecie: l’acquisizione della cittadinanza per i nati in Italia da almeno un genitore titolare di diritto di soggiorno permanente; l’acquisizione della cittadinanza da parte di minore straniero (in Italia entro i 12 anni) che avesse frequentato un ciclo scolastico o formativo; l’acquisizione per i giovani arrivati dopo i 12 anni che si sono poi diplomati. Queste ultime due fattispecie sono lo ius culturae, che insiste sulla cultura italiana per ottenere la cittadinanza. Per l’Italia, paese di transito, è molto più appropriato lo ius culturae: un’espressione che avevo lanciato alla fine del 2011 — non a caso — quand’ero ministro dell’integrazione e della cooperazione del governo Monti. Supera gli automatismi dello ius soli e dello ius sanguinis. Valorizza il processo d’integrazione del bambino, figlio di stranieri, nato in Italia o arrivato nel paese.
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