di Stefano Zurlo

02/09/2021 “L’Europa deve smettere di piangersi addosso. Riscopra i suoi valori e la sua identità cristiana”

di Andrea Riccardi

Fonte: Il Giornale

Ci sono i valori, certo. Ma poi c’è la realtà che chiama, interroga, provoca. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, storico della Chiesa, ministro della Cooperazione internazionale nel Governo Monti, non rinuncia alla sfida: «Il cristianesimo è responsabilità, passione per l’uomo, speranza. Ecco, l’Europa che lascia l’Afghanistan si accorge di essere diventata ormai da tempo irrilevante. E si muove fra paura e decadenza». Silvio Berlusconi sul Giornale ha rilanciato il tema dell’identità cristiana. Qualcuno forse ritiene che il dibattito debba stare dentro un perimetro di teorie e astrazioni, ma Riccardi ha un altro passo: è un intellettuale raffinato, ma con Sant’Egidio, ribattezzata a suo tempo l’Onu di Trastevere, non ha avuto paura di scendere in campo fra le guerre e le contraddizioni del Terzo Mondo e ha dato un contributo importante al raggiungimento della pace in alcuni paesi africani, come l’Angola e il Mozambico.

Professor Riccardi, tutti criticano gli americani e il presidente Biden, che è scappato da Kabul, lei invece accende i riflettori sull’Europa. Perché?

«Perché l’Europa ha radici cristiane, ma di più, l’Europa ha un cristianesimo vivo con tante chiese e comunità».

Ma oggi non prevalgono edonismo, nichilismo, relativismo?

«Io direi vittimismo. Come vede, torniamo all’Afghanistan e alle grandi crisi contemporanee».

Scusi, che c’entra il cristianesimo con il vittimismo e questo con Kabul?

«Mi pare tutto legato. La storia dell’Europa che è una storia cristiana, anche se non solo perché c’è l’Illuminismo e altro ancora, è una storia di estroversione. Pensiamo a San Gregorio Magno che sul finire del sesto secolo si preoccupava degli Angli, pensiamo a San Francesco che voleva portare il Vangelo in Medio Oriente, pensiamo ai monasteri medioevali che non erano oasi nel deserto, ma al contrario luoghi di fede e di costruzione di una civiltà nuova. Capisce?».

Evangelizzazione e promozione umana, per usare un vecchio slogan.

«Faccio un altro esempio: noi pensiamo alle conquiste coloniali come a guerre di conquista e rapina, e non c’è dubbio che ci siano stati massacri, crimini e pure genocidi. Ma dobbiamo anche riflettere sull’epopea missionaria».

Epopea?

«Centinaia di uomini e donne che hanno lasciato i loro paesi e le comodità di una vita sicura per portare il Vangelo dall’altra parte del mondo. E con il Vangelo hanno introdotto le tecniche dell’agricoltura, l’alfabeto, la scienza medica. Il Cristiano ha fatto un incontro che lo rende certo. L’Europa ha questo ottimismo denso di umanità e speranza nel suo Dna».

Oggi questa consapevolezza si è affievolita?

«Oggi l’Europa è come quel servo della parabola evangelica che invece di far fruttare i suoi talenti era andato a nasconderli sottoterra. Non è più capace di moltiplicarli, di avere una visione delle cose, di trasmettere energie. Si piange addosso, è come rattrappita, ha perso la voglia di confrontarsi con le le altre culture e civiltà. Insomma, si chiude in se stessa. Ma attenzione: la chiusura è fatalmente l’anticamera della decadenza»
D’accordo, ma come invertire questa tendenza imbevuta nel pessimismo?

«Intanto, mi lasci dire che quando è bruciata Notre Dame la stampa francese, e non solo quella, ha colto benissimo la portata simbolica di un rogo che metteva in forse duemila anni di storia: che ne sarà della Francia e dell’Europa senza Notre Dame? Questa era la domanda che riecheggiava fra un commento e l’altro».

Questo è anche il contesto inquieto del suo ultimo libro: «La Chiesa brucia», Laterza, una riflessione sul futuro del cristianesimo.

«Certo, le radici magari si dimenticano, ma in certi momenti vengono fuori, le vai a cercare, le riscopri con nostalgia. Da un certo punto di vista vale sempre quel che scrisse Benedetto Croce: perché non possiamo non dirci cristiani. Una frase che riassume le nostre origini, i nostri ideali, il percorso compiuto dai nostri popoli; certo, il grande filosofo non pronunciò quelle parole perché si fosse convertito, ma da laico. Quelle radici, come accennavo, non si sono seccate e se le si segue aprono strade straordinarie anche per l’uomo di oggi, ripiegato su se stesso, e m lasci dire anche per il politico che tentenna disorientato».

Che cosa può fare un leader europeo di fronte alle immani difficoltà portate dalla pandemia, dalle guerre, dalla crisi economica?

«Io non pretendo di battezzare tutti al fiume, ci mancherebbe, ma dico che ognuno dovrebbe fare il bagno nel suo fiume. Riprendere la propria storia, contemplarne l’universalità, intuirne la profondità. Spesso si ha la percezione che questa civiltà cristiana sia per tutti noi solo un museo».
E invece?

«È una bussola che dà la direzione».

Dunque, nello specifico cosa chiede alla classe politica?

«La politica europea deve trovare la strada dell’unità. Non è possibile che italiani e francesi, per citare un fatto, si dividano o peggio si facciano i dispetti in Libia o Niger. Il, primo passo per uscire dall’irrilevanza è mettere insieme forze e capacità».

Il secondo?

«Andare a giocare le partite in cui possiamo dire la nostra. Libia, Mediterraneo, Balcani e via elencando».

Ma l’Europa non è solo malata di vittimismo, è pure divisa al suo interno.

«I tempi dell’Est non sono quelli dell’Ovest, all’Est sono rimasti sotto il tallone sovietico per quarant’anni, ora vivono una sorta di Risorgimento e frenano sull’integrazione. Si può andare avanti con chi ci sta, gli altri seguiranno quando i tempi saranno maturi».

In Polonia, ma non solo lì, emerge un forte cattolicesimo di stampo nazionalista, chiuso ai migranti dal Sud del mondo. Questa sensibilità allontana dal sentiero percorso da santi, filantropi, apostoli del bene comune per tanti secoli?

«Mi pare che quella mentalità, arroccata nella difesa intransigente della tradizione, dei valori, dell’identità abbia smarrito quella capacità di uscire dal proprio guscio e di portare al prossimo la novità che è dentro la nostra storia e civiltà. Da questo punto di vista trovo straordinaria la lezione di Papa Wojtyla che era riuscito a dare al suo Paese a al continente una spinta propulsiva quasi messianica»

Insomma, non dobbiamo rassegnarci?

«Siamo in un’epoca in cui molti si arrendono e alzano le mani davanti alla complessità della società. Ma noi sappiamo che la speranza porta al cambiamento e muove la storia. Sì, la speranza offre prospettive inedite e dà una visione di fondo che passa anche attraverso le sconfitte e le crisi. In Mozambico, dove avevamo raggiunto la pace nel 1992, oggi ci sono ottocentomila sfollati e una sanguinaria guerriglia islamista che ha preso il posto dell’utopia guevarista. Ma non ci scoraggiamo. Il cristiano è realista, non sarà mai pessimista».