03/01/2012 Stranieri. Come andare d’accordo

di gigasweb

Fonte: Avvenire

L’Italia è molto cambiata. Mi ricordo che, nel 1961, quando l’Italia festeggiava cent’anni d’Unità, mio padre mi portò in viaggio. Prima tappa fu Torino, dove si celebrava la festa dell’Unità in piena memoria del Risorgimento: il simbolo era un treno – una meraviglia della tecnica – che correva su una monorotaia. Sembrava che l’Italia corresse rapida e sicura verso il futuro di benessere. C’era il senso di un’identità e una sicurezza del futuro.

Da Torino andammo in Germania meridionale e lì vidi un gruppo di africani, che mi colpì molto perché da noi non ce n’erano. Avevo visto poco prima un film sui mau mau , il movimento terroristico in Kenya, che ammazzava i farmer inglesi: neri cattivi contro coloni con figli bianchi e biondi – era il messaggio. Mi chiesi se c’era da aver paura che quegli africani arrivassero tra noi. Nel 1963 il Kenya avrebbe avuto la sua indipendenza, in quegli anni Sessanta che sono la stagione delle indipendenze africane. Il nostro orizzonte italiano è stato per secoli tutto bianco e omogeneo. Non c’erano i non europei, se non qualche gruppo di seminaristi a Roma. Così è stato l’orizzonte della mia generazione. I diversi erano di altre regioni o province. Dopo la seconda guerra mondiale c’è stata l’emigrazione meridionale nel Nord. In Romagna, dove vivevo, il meridionale era talvolta chiamato in modo spregiativo maruchen. Differente è stata la storia della Gran Bretagna e della Francia, cuore di imperi coloniali con una cultura coloniale che guardava a genti diverse.

Non pochi francesi e inglesi, a motivo delle colonie, erano vissuti o nati oltremare. I soldati africani si erano battuti per la Francia, tanto che vediamo ancora le tombe in Italia: nomi arabi o africani, mezzaluna per rappresentare l’islam, ma la scritta che si nota reca: «Mort pour la France». Inevitabile che Parigi divenisse un punto di attrazione per i sudditi coloniali, tanto che qui la grande moschea fu inaugurata dopo la prima guerra mondiale (quella di Roma, la più grande d’Europa, è stata inaugurata nel 1995, dopo che Paolo VI dette il via al progetto). Nella metropoli imperiale affluiva gente dai Paesi coloniali, in particolare musulmani del Maghreb. Oggi la Francia conta 3.674.000 immigrati, cifra relativamente bassa, perché molti hanno ricevuto la cittadinanza in tempi abbastanza rapidi e non sono immigrati. I musulmani in Francia sono più di quattro milioni, di cui tre di origine magrebina, e rappresentano il 7% dei francesi. La figlia primogenita della Chiesa è divenuto in un secolo multireligiosa. L’impronta del colonialismo francese (anche dell’accoglienza agli emigrati) era assimilare alla civiltà, all’identità e alla lingua nazionale, oltre che alla laicità. Molto differente è quella britannica e lo si vede a Londra.

L’impero era britannico e multinazionale; favoriva l’indirect rule, anche perché meno impegnativo e costoso. Dopo una prima apertura ai sudditi dell’impero dopo la guerra (anche con la concessione della cittadinanza), l’accoglienza agli emigrati fu praticata dagli inglesi favorendo lo sviluppo separato: un multiculturalismo largo. I musulmani sono nel Regno Unito quasi 1.600.000, in larga parte provenienti da India, Pakistan e Bangladesh. Sia il sistema identitario della Francia che quello multiculturale della Gran Bretagna presentano molti problemi. Oggi il primo ministro britannico, Cameron, dichiara che il multiculturalismo è fallito e che si rischiano comunità separate. Il presidente Sarkozy, già da ministro dell’interno, ha espresso molte preoccupazioni nello stesso senso: gli immigrati non diventano francesi in senso identitario. La rivolta dei giovani immigrati nella periferia di Parigi è l’espressione di questa difficile integrazione. A queste critiche al multiculturalismo fa eco la cancelliera Merkel in una Germania che, per decenni, ha favorito – per motivi economici – un’immigrazione omogenea dalla Turchia e oggi è alle prese con una grossa (e separata) comunità turca e curda. Del resto gli indici di integrazione in Germania sono in genere bassi: anche per gli immigrati italiani e i loro figli, da tempo nel Paese rispetto ai turchi.

Pochi conoscono – mi sia permesso ricordarlo – una pagina oscura della storia tedesca: la campagna nazista Ncontro gli afro-tedeschi, cittadini germanici con passaporto, che Hitler equiparò agli ebrei e condusse alla sterilizzazione e in parte al lager. Ce lo spiega Sergio Bilè in un piccolo libro pubblicato dalla Emi, Neri nei campi nazisti. Nell’Italia tutta bianca non esisteva la storia imperiale e coloniale. Il Paese non era nemmeno multireligioso, ma compattamente cattolico. Piccole comunità ebraiche ed evangeliche hanno occupato per secoli il posto dell’altro in una società omogenea. Anzi, l’Italia era fino al secondo dopoguerra un Paese di emigrati, che ha conosciuto il dolore dell’abbandono e la fatica dell’integrazione. Lo ricordiamo in molti, ma Gian Antonio Stella, nel libro L’orda, quando gli albanesi eravamo noi, ce lo mostra in modo efficace. È un libro che aiuta ad essere meno smemorati. Siamo figli e nipoti di emigrati. Del resto, per ex emigrati è difficile accettare nuovi emigrati. Spesso si dà luogo alle guerre tra i poveri. el 2011 l’Italia vive la festa dei suoi 150 anni, Stato giovane tra quelli europei, ma nazione antica come pensava Alessandro Manzoni che, con I Promessi Sposi , scrisse la 'bibbia' dell’unificazione linguistica del nostro Paese, immerso 150 anni fa, nel mondo dei dialetti. Oggi l’Italia ha 60.387.000 cittadini e 4.500.000 (Istat nel 2008) emigrati, con uno dei più bassi tassi di natalità al mondo e con speranza di vita di 78,8 per gli uomini e di 84,1 per le donne. L’Italia festeggia in modo triste e incerto il suo giubileo. C’è il dibattito storico sul Risorgimento, che viene revisionato. Dopo tanto parlare per decenni di questione meridionale, ci si è accorti che esiste una questione settentrionale. Pesa la crisi economica. Infine c’è una radicale mancanza di visione del futuro. Molti, più che parlare d’Italia, preferiscono discutere di territorio o regione, che hanno confini più certi, più che di un Paese incerto. Che differenza dal 1961, quando si festeggiavano i cent’anni! Allora il futuro sembrava a portata di mano.

Oggi il futuro sembra invaderci senza che possiamo guidarlo. Assume l’aspetto degli stranieri che sbarcano sulle nostre coste o in aree delle nostre città. Talvolta – ed è paradossale – assume il volto dei rom. Davvero paradossale, perché questi sono solo 180.000, di cui la metà italiani e, per metà, bambini. Eppure diventano un catalizzatore di insicurezza. L’immigrazione non è un’invasione che minaccia l’identità tradizionale dell’Italia? Siamo tutti insicuri, ma per questo e altri motivi. Da qui la crescente domanda di sicurezza in questo tempo di giubileo triste. In verità sono convinto che non si tratta di sicurezza a livello di criminalità, ma di qualcosa di più profondo: è domanda di sicurezza sul futuro: con chi vivremo domani e come vivremo. Le misure di sicurezza non placano la paura, perché spesso è timore verso un futuro incerto. È anche la paura di una società di anziani, perché un quinto degli italiani ha più di 65 anni. Con quale cultura abbiamo affrontato una svolta epocale nel nostro Paese? Alla paura diffusa, si è risposto con una visione che proponeva l’integrazione nell’affiancamento di culture, lingue, religioni altre all’Italia di sempre.

La spiegazione di questo cambiamento è stata in linea con una cultura che potremmo definire cosmopolita, che – con spirito di tolleranza – accosta tradizioni, religioni, lingue, culture, abitudini, le une accanto alle altre. Così la cultura 'democratica' (uso impropriamente questa parola per definire quella non conservatrice) ha guardato al multiculturalismo come obbiettivo, magari mettendo da parte le idee di uguaglianza e riforma sociale, professate nei decenni precedenti. Ci si è divisi spesso nei dibattiti tra un partito della paura e uno dell’apertura. I 150 anni non sono oggi solo un’occasione in cui rinsaldare l’identità, ridire il senso di una comunità nazionale, ma anche di porsi a confronto con un mondo nuovo, con culture, lingue e religioni degli immigrati. Il grande rischio è lasciar crescere, nel tessuto di una nazione spaventata, un insieme di comunità ai margini.

Un multiculturalismo di fatto. Il discorso vale, in particolare per un fatto assolutamente nuovo: una popolazione musulmana di circa 1.200.000, mentre cinquant’anni fa erano poche unità. Per Giovanni Sartori è la balcanizzazione della società e la fine del pluralismo vero in cui contano i diritti dell’individuo. Quello italiano non è un multiculturalismo di fatto, scarico di idee? Del resto la storia degli ultimi decenni ha visto sciogliersi, proprio nel Mediterraneo, tante convivenze tra comunità diverse. Si pensi a quella tra turchi e greci a Cipro, finita nel 1974, ma soprattutto alla vicenda dei Balcani, a Sarajevo, dove musulmani (poco praticanti al tempo di Tito), cattolici e ortodossi vivevano insieme. La giustapposizione di comunità non ha in sé il germe della disgregazione? Vivere insieme tra diversi può apparire un rischio per la sicurezza, l’identità, per il futuro. Come crescere con una solida identità umana in una società che ha trasformato il pluralismo etico e politico degli anni settanta in pluralità di culture? Siamo in un’Italia spaesata per la sua crisi, la globalizzazione, la paura e l’incertezza del futuro.

È mancata una meditazione seria sulla rapida trasformazione di una società omogenea in società plurale. Sono stato da sempre convinto che l’immigrazione (che ci trasforma in società plurale) pone un problema analogo a quello che ieri era la questione dei confini di uno Stato. Le frontiere richiedono allo stesso tempo un impegno bipartisan e una dose di patriottismo. Non utilizzare l’argomento per combattere. Purtroppo la trasformazione italiana in società plurale è avvenuta in un periodo delicato, quando lo Stato veniva investito dalla crisi della Prima Repubblica o in anni successivi della cosiddetta Seconda Repubblica, mai veramente nata. Sono stati anni di introversione del Paese; ma anche una stagione in cui la politica si è viepiù dissociata dalla cultura, quindi dalla riflessione sui problemi, per allearsi in modo crescente ai media. Il che ha portato ad alzare i toni in modo emotivo e aggressivo. Tutte le profezie di catastrofi imminenti, tutte le predicazioni del disprezzo verso gruppi, etnie, come con i rom, seminano innescano processi che vanno al di là della volontà di chi semina. Facciamo attenzione alla predicazione del disprezzo e della paura. Il futuro è nelle mani nostre e dei nostri figli. Il problema è che queste mani siano esperte e sensibili. Diamo uno sguardo realistico all’Italia di oggi. L’Italia non è destinato a divenire un Paese 'invaso' dai musulmani, come profetizzato dagli anni Ottanta. Le comunità musulmane – se si sommano i loro aderenti – non fanno un corpo compatto.

I musulmani marocchini restano altra realtà dai bangla, dai confraternali muridi senegalesi, dagli albanesi secolarizzati (tra cui c’è un tasso di conversioni al cattolicesimo). È interessante notare come avvenga invece lo spostamento della millenaria frontiera che divise, nei Balcani, il cristianesimo d’Occidente da quello ortodosso, ferma per secoli. Più di un terzo degli immigrati (romeni, ucraini, moldavi, serbi) sono ortodossi. L’ortodossia diventerà la seconda comunità religiosa in Italia. Cominciano ad affacciarsi istituzioni legate alle comunità non di origine italiana, come le moschee, ma anche un’università polacca a Roma. Le comunità straniere presentano caratteri diversi: alcune quasi si dissolvono nel tessuto nazionale, eccetto alcuni elementi, mentre altre sono più identitarie. C’è diversità tra marocchini e romeni.

Ma c’è un meticciato della vita quotidiana che tutti unisce. Scrive Todorov: «Oggi dunque ognuno di noi ha già vissuto dentro di sé, sia pure in diversa misura, questo incontro di culture: siamo tutti meticci». C’è un meticciato del quotidiano. Proprio per questo, per una vita al crocevia di diverse esperienze, è importante un’identità consapevole, colta, sensibile, capace di aprirsi. Due milioni di conti correnti bancari degli immigrati ci dicono la storia dell’inizio di un radicamento. Gli imprenditori stranieri, iscritti alla Unioncamere, sono raddoppiati in cinque anni e risultano 234.000 (i più rappresentati sono romeni e cinesi). Gli studenti stranieri a scuola sono il 7% (ma in Veneto il 17% dei nuovi nati ha origini non italiane). Nel 2007 i figli di immigrati sono l’11,2% dei nati in Italia. Il mondo dell’Italia si allarga e si interseca con altri mondi. Grandi e piccoli problemi si presentano alla nostra vita. Sono diversi dai problemi di ieri. Eppure anche ieri – si pensi al 18 aprile 1948 – l’Italia sembrava drammaticamente dividersi tra gli italiani. Il vero problema è avere un ideale ed avere idee. Senza questo non si educa. Mi permetto di dire che non si governa nemmeno.

L’idea è un umanesimo italiano, che ha radici nella nostra storia e nel vissuto cristiano, che sia solida base ad una società del convivere. Un uomo, un armeno di Istanbul, figlio di un popolo che ha conosciuto i massacri turchi (tanto che gli armeni sono ancora chiamati «quelli che sono sfuggiti alla spada»), ha scritto: «Convivere non era una grazia che avrebbe concesso qualcuno dall’alto, era una civiltà che popoli che convivono debbono produrre insieme». Identità e convivenza sono nelle nostre mani, si formano nelle nostre scuole, si nutrono nel sapere, ma soprattutto – lo ribadisco – si preparano in una vita illuminata dal credere. Ma – lasciatemelo dire – anche capace di amare e sperare. Perché tanta paura nasce da una speranza illanguidita, che ha dimenticato la forza costruttiva, anzi creativa, dell’amore.

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